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Cittadini più forti con l'”empowerment”

A livello internazionale è sempre più evidente lo sforzo che molti governi stanno compiendo per coinvolgere maggiormente i cittadini nel loro operato.  E’ un campo tutto da esplorare, lungo un percorso di ricerca e sperimentazione in cui la social innovation sta dimostrando di poter giocare un ruolo estremamente importante per la sua capacità di creare nuove relazioni e nuovi strumenti.

E’ infatti proprio al cambiamento delle relazioni tra attori che punta la social innovation, spingendo con la pratica la diffusione di modelli efficaci, scalabili e replicabili di cui gli enti pubblici sono alla ricerca. Non a caso il tema dell’innovazione sociale è ormai istituzionalizzato, entrato nell’agenda europea 2014-2020 e già ampiamente sviluppato con successo a livello progettuale in diversi Paesi del vecchio e nuovo continente.

imm_Empowerment_IDEOTOOLKITIl coinvolgimento, la partecipazione dei cittadini nei processi di cambiamento della società finalizzati al Bene Comune è alla base di un concetto molto più ampio, certamente non nuovo: l’empowerment, cioè l’opportunità che viene data alla persone di realizzare le proprie potenzialità, di crescere nella propria capacità di influenzare e attivare il cambiamento attraverso un processo di responsabilizzazione, consapevolezza e partecipazione.

Un processo lungo, continuo, che proprio dalla qualità delle relazioni sociali trae il suo nutrimento e che oggi individua nella social innovation la strada più percorribile per promuovere lo sviluppo e uscire dalla crisi. L’empowerment è al contempo motore e obiettivo di un processo sociale –innovativo nelle modalità, negli strumenti e nelle competenze utilizzate – che investe sulle capacità personali, le mette in “rete” e attraverso nuove forme di collaborazione e cooperazione accresce ulteriormente la forza di azione della società nella sua pluralità di attori coinvolti.

Attraverso l’empowerment, che rovescia la percezione dei limiti, si realizza così una comunità competente e motivata, consapevole dei problemi sociali e dei vantaggi che può trarre dai cambiamenti. Un concetto che richiama quello di capacity building, definita nel 2006 dall’UNDP(United Nations Development Programme) come l’abilità di individui, istituzioni e società di realizzare funzioni, risolvere problemi, fissare e raggiungere gli obiettivi in modo sostenibile.

Abilità che si raggiunge con un “rafforzamento” che vada oltre la “formazione”, cioè We_can_do_it_J. H Millerl’acquisizione di competenze, ma che agisca invece più in profondità ampliando le possibilità di agire, di compiere un’azione, a partire da un nuovo modo di vedere e di pensare che induca a cambiamenti di potere.

Laboratori di quartiere, spazi per la progettazione partecipata, spazi di ascolto, forum locali, strumenti finanziari di comunità e per le comunità sono alcuni degli strumenti di partecipazione e coinvolgimento attivo dei cittadini attraverso i quali aumentare l’empowerment. Ci soffermeremo prossimamente sul crowdfunding e il crowdsourcing.

Innovazione sociale: dalla pratica alla teoria

E’ ormai centrale nell’agenda politica di mezzo mondo, ma ancora non è chiaro a cosa ci si riferisca esattamente. Si abusa del termine senza che vi sia una definizione precisa, esaustiva  e universalmente accettata. Banalizzazione, retorica, strumentalizzazione sono i rischi che si corrono a parlarne impropriamente. Perché l’”innovazione sociale” – o social innovation – è prima di tutto una pratica, dalla cui osservazione si sta cercando di ricavare una teoria.

Ed è una pratica non nuova: le sue caratteristiche, che da 15 anni circa si tenta di codificare e tradurre in un linguaggio e in una progettualità non approssimativi, le ritroviamo in interventi molto meno recenti. Allora non si parlava di “innovazione sociale”, non esistevano la tecnologia informatica e i social network, ma gli obiettivi erano gli stessi: attivare cambiamenti in grado di migliorare il benessere della società, a livello locale o globale.

Quando un’innovazione è “social”?

Lslide-02’obiettivo del Bene Comune segna la differenza tra queste pratiche sociali e tutte le altre “innovazioni”, ognuna delle quali ha sì un impatto sociale ma non necessariamente “good”, buono. Ecco la definizione – contenuta nella “Guide to Social Innovation” realizzata dalla Commissione Europea” (febbraio 2013) – che secondo SocialFare esprime meglio il concetto:

“L’’innovazione sociale può definirsi come lo sviluppo e l’implementazione di nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che incontrano bisogni sociali, creano nuove relazioni sociali e collaborazioni. L’innovazione sociale porta nuove risposte ad impellenti bisogni che coinvolgono processi di interazione sociale. Le innovazioni sociali sono sociali solo se utilizzano strumenti e perseguono fini sociali. Le innovazioni sociali aggiungono valore alla società e aumentano la capacità di azione individuale e di comunità”.

Una definizione che nasce dal bisogno di chiarire cos’è – e cosa non è – una pratica ormai prioritaria nell’elaborazione di politiche volte a un’economia sostenibile e inclusiva, elemento centrale della Strategia Europa 2020 che per rilanciare l’economia ha fissato ambiziosi obiettivi in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale, energia/clima.

Tante definizioni

Nel corso degli ultimi anni, in particolare, il tentativo di codificare la pratica della social innovation per imporla con più efficacia all’attenzione politica si è tradotto in numerosi studi che hanno contribuito nel loro insieme a “spingere” sempre più in alto il concetto, anche se – come si è detto – non si è ancora pervenuti a una definizione unica e continuano ad esserci confusione e ambiguità. Interessante, in proposito, uno studio pubblicato nel 2014 da Tara Anderson, Andrew Curtis e Claudia Wittig, allievi del corso universitario “Master of arts in social innovation” attivato dalla Danube University Krems in collaborazione con il Centro per l’innovazione sociale di Vienna.

Lo studio , intitolato “Definition and Theory in Social Innovation”, analizza le varie teorie fino ad approdare alla proposta di una nuova definizione che in poche parole concentra il significato di “innovazione sociale” quale emerge dal dibattito internazionale in corso. Un dibattito in cui “equality”, “justice” e “empowerment” vengono individuati come obiettivi finali – l’impatto – dei cambiamenti sociali promossi, impossibili da centrare senza la rete (co-creation e co-design). Quella rete di cui la social innovation ha bisogno per ottenere maggiori benefici in termini di replicabilità e scalabilità (replicability e scaling up). Tutti termini su cui ci soffermeremo prossimamente nel nostro glossario.immagine blog_glossario social innovation

Il dialogo con le istituzioni

Le molteplici definizioni finora coniate (ognuna delle quali individua obiettivi specifici in base al contesto sociale di riferimento) arricchiscono e contribuiscono a creare una “teoria” che sia capace di aiutare la pratica, facilitando il dialogo e spingendo le istituzioni a indirizzare maggiori risorse all’innovazione sociale.

La social innovation incontra, infatti, non poche resistenze nel suo tentativo di affermarsi come unica possibile alternativa alle soluzioni, orientate all’assistenzialismo, proposte da un welfare tradizionale ormai incapace (perché privo di adeguate risorse) di soddisfare bisogni sempre più pressanti. Di qui l’esigenza di “rigore scientifico”, di ordine e chiarezza in una pratica che sta dimostrando di essere in grado di offrire soluzioni più efficaci, efficienti e sostenibili ai problemi sociali, di far crescere e responsabilizzare individui e gruppi, di accrescere la capacità (capability) della società di agire…

La Banca dei poveri

Un esempio concreto dove sono presenti tutti gli aspetti dell’innovazione sociale secondo le definizioni attuali: dalla Fondazione della Banca dei poveri (Grameen Bank) in Bangladesh ad opera di Muhammad Yunus, nel 1976, il microcredito si è rivelato un efficace strumento di lotta alla povertà. La rivoluzione introdotta è, però, più una riscoperta che un’invenzione: le radici sono molto più antiche e affondano in Italia, 600 anni fa, con i Monti di Pietà. Un’esperienza plurisecolare che Yunus ha adattato alle caratteristiche specifiche del suo Paese, dove gran parte della popolazione vive nelle campagne.

La Grameen Bank (Banca rurale o di villaggio) è stata fonte di ispirazione e di modelli per le numerose istituzioni del settore del microcredito che sono nate in ogni parte del mondo. Al centro, la creazione di reti di fiducia e di sostegno, la consapevolezza che i sussidi ai poveri non spingono a tirare fuori il talento o la creatività ma fanno sentire la gente passiva, esclusa da qualsiasi progetto di riscatto, perciò incapace di migliorare.

immagine blog_grameen bank_yunus“Il microcredito, invece, “permette ai poveri e agli scalzi di accedere a una opportunità che di solito è esclusivo appannaggio dei ricchi – spiega Yunus – Accade così che quegli aspetti della società che sembravano rigidi, fissi e inamovibili comincino a diventare più fluidi, e attraverso lo sviluppo economico le persone si affranchino da tutto un insieme di ingiunzioni e regole”.

L’idea del microcredito è applicabile ovunque, per quanto il modello vada adeguato e calibrato a caratteristiche diverse. Le molteplici esperienze hanno dimostrato che dare credito ai microimprenditori poveri, in particolare alle donne, è possibile ed economicamente sostenibile, attraverso procedure e modalità che valorizzano l’imprenditorialità e le reti sociali locali.

E’ fondamentale, però, che chi eroga i prestiti rivolga sufficiente attenzione all’accompagnamento, al rispetto, all’acquisizione delle competenze necessarie e, soprattutto, alla costruzione di fiducia e senso di responsabilità. Ecco il valore aggiunto del microcredito: non si limita a finanziare, ma rigenera reti di fiducia. E la fiducia genera reciprocità.