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Incontro in SocialFare® con Alessandra Poggiani direttrice dell’Agenzia per l’Italia Digitale

L’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ha un’ardua impresa da compiere: il 40% degli italiani non usa Internet e ancora troppe piccole imprese (che costituiscono la quasi totalità del  tessuto economico del nostro Paese) considerano la tecnologia digitale una minaccia e non un’opportunità.

Nata due anni fa e rilanciata dal Governo Renzi, l’Agenzia  ha il compito di “garantire la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda digitale italiana in coerenza con l’Agenda digitale europea e contribuire alla diffusione dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, allo scopo di favorire l’innovazione e la crescita economica”. Un processo di modernizzazione che si rivela impegnativo e complesso in un’Italia che conta oltre il 40% di disoccupazione giovanile e dove almeno un terzo della popolazione non sa nemmeno cos’è il digitale.

images 1Ecco perché Alessandra Poggiani, nuovo direttore dell’Agenzia nominato dal premier Renzi per velocizzare l’attuazione dell’Agenda, sta esplorando ogni possibile strada per attivare una maggiore apertura di questi temi a un pubblico che non sia solo di “addetti ai lavori”, per far crescere trasversalmente la consapevolezza delle opportunità che può offrire la tecnologia digitale. Perché l’AgID non è soltanto strumento di riforma della pubblica amministrazione: la digitalizzazione del Paese può seriamente aiutare la crescita economica e occupazionale. Centrale diventa, dunque, il rapporto con il territorio attraverso una fitta rete di competenze e strutture capaci di veicolare il messaggio e farlo penetrare in profondità nel tessuto produttivo – ma anche culturale e sociale – del Paese.

Ed è in questa direzione che si colloca l’avvio ieri in Piemonte, presente la direttrice dell’AgID, di un’Unità di Progetto in collaborazione con il CSI che permetterà all’Agenzia di lavorare in sinergia con le amministrazioni locali, la società civile e gli operatori economici del territorio. Nel pomeriggio Alessandra Poggiani è stata invitata dal gruppo torinese delle Wister (Women for Intelligent and Smart TERritories), guidato dalla consigliera comunale Nomis Fosca, ad un incontro informale con esponenti dell’associazionismo, dell’imprenditoria e della formazione piemontesi.

L’incontro, che si è svolto presso la sede di SocialFare® nel complesso dell’Artigianelli in corso Palestro 14 – a sottolineare il forte legame tra digitale e innovazione sociale –, ha permesso alla direttrice dell’AgID di rivolgersi a un insieme variegato di realtà su cui l’Agenzia ripone molte aspettative per costruire e consolidare quell’auspicato rapporto col territorio senza il quale gli obiettivi dell’Agenda non sarebbero realizzabili. img per patrizia

Professionisti, manager (presente anche Federmanager, molto attiva sui temi dell’innovazione tecnologica), designer, docenti universitari, imprenditori… hanno rinnovato il loro sostegno. “Occorre dare ampio respiro alla strategia italiana sul digitale – ha detto Poggiani – L’Italia deve recuperare terreno, oggi è indietro rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea e del mondo molto più digitalizzati e avanzati. E dobbiamo essere più concreti: negli ultimi anni si è fatta molta teoria e poca pratica. Anche a costo di sbagliare, è meglio mettere in moto energie che più del pensiero e della progettazione possano incidere sulla realtà”.

Il tema delle competenze digitali, ancora scarsamente diffuse sul territorio italiano, è centrale nell’Agenda e quindi nelle azioni che l’AgID intendere realizzare. Di qui l’elaborazione di un piano (“Coalizione nazionale per le competenze digitali”) che individua priorità, tempistiche e modalità della digitalizzazione, con particolare attenzione alle piccole aziende, per spingere finalmente il processo di modernizzazione del Paese con effetti significativi sulla capacità di crescita economica e di competitività globale. Un Piano abbozzato in sinergia tra settore pubblico e privato e attualmente in fase di consultazione. “Abbiamo chiamato tutto il Paese a proporre progetti che abbiamo un impatto specifico, non teorico – ha detto la direttrice dell’Agid – A febbraio sarà pronto il documento finale”.

foto 3Argomento finora piuttosto trascurato riguarda l’impatto che la digitalizzazione avrebbe sull’occupazione femminile. Tema che durante l’incontro di ieri presso la sede di SocialFare® è stato sollecitato da Wister, rete di donne nata ufficialmente nel 2013 con l’obiettivo di “informare, proporre, segnalare notizie ed eventi riferiti alle tematiche di genere, con particolare riguardo alla nuove tecnologie”. Alessandra Poggiani ha così sottolineato la necessità di sostenere “l’accesso e l’accompagnamento delle giovani donne a un’educazione scientifica e tecnica, indirizzandole maggiormente verso professioni della realtà contemporanea”. Così come è importante sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della digitalizzazione delle imprese anche per la maggiore presenza che le donne avrebbero nel mondo del lavoro.

SocialFare® partner del Salone del Gusto e Terra Madre

Oltre mille espositori provenienti da più di 100 Paesi, 86 incontri e conferenze, 53 attività didattiche. Nutrito e ambizioso il programma della decima edizione del Salone del Gusto e Terra Madre  che si svolgerà sotto la Mole dal 23 al 27 ottobre 2014 presso Lingotto Fiere, organizzato da Slow Food, Regione Piemonte e Comune di Torino, in collaborazione con il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali.

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Non una fiera, ma un evento che nel corso degli anni ha costruito una rete di solidarietà che valica i confini nazionali fino a raggiungere e connettere Paesi ricchi e poveri. Osservatorio privilegiato di quanto avviene nel mondo, da Nord a Sud, nel campo dell’alimentazione e dell’agricoltura, nonché occasione unica per imporre all’attenzione generale tematiche di centrale importanza quali, ad esempio, la tutela della biodiversità e l’agricoltura familiare, alle quali è dedicata l’edizione 2014.

Politico, sociale, culturale, economico: il messaggio lanciato dalla manifestazione interpella molteplici realtà ed è sostenuto dalla qualità degli attori coinvolti e delle azioni intraprese in un fitto intreccio di relazioni e competenze. E SocialFare®,  primo centro per l’innovazione sociale in Italia, con sede a Torino, non poteva non farne parte.

Dopo aver raggiunto l’obiettivo di “evento a ridotto impatto ambientale” (con una riduzione del 65% rispetto al 2006), il Salone ha deciso infatti di esplorare nelle prossime tre edizioni nuove forme di sostenibilità (sociale, culturale e sensoriale, economica) ideando il progetto “Systemic Event Design” (S.Ee.D), a ulteriore conferma dell’attenzione che il Salone rivolge al territorio.

immagine conf stampa SF_1_blogIl progetto, realizzato con il coordinamento scientifico dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche e il patrocinio del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, si avvarrà della collaborazione di SocialFare®, di Design Sistemico Politecnico di Torino e del Dipartimento di Scienze Agrarie Forestali Alimentari dell’Università di Torino.

SocialFare® sarà responsabile per il focus strategico di analisi sulla sostenibilità sociale dell’evento: studierà cioè l’impatto sociale generato da alcune azioni ed elementi già presenti all’interno della decima edizione della manifestazione.

E a proposito di cibo e design, segnaliamo un altro evento al quale parteciperà SocialFare®:

Dal 10 al 12 ottobre a Torino Esposizioni, in corso Massimo d’Azeglio 15, si svolgerà la quinta edizione di “Operae”, indipendent design festival, appuntamento ormai entrato nell’agenda del design italiano. Sono previsti incontri, dibattiti e workshop nell’ambito di una mostra mercato che offrirà ai designer italiani e stranieri la possibilità di incontrare gli addetti ai lavori, le aziende, i distributori, i negozi.

Sabato 11, dalle 11,30 alle 13,30, SocialFare® parteciperà alla tavola rotonda “Il cibo. Innovazione e design sociale”. Laura Orestano e Roberta Destefanis interverranno sull’”innovazione sociale come driver per l’ideazione, la co-progettazione e lo sviluppo di idee, soluzioni e reti per il Bene Comune e la generazione di ecosistemi di sostenibilità sociale”.

 

Innovazione sociale: dalla pratica alla teoria

E’ ormai centrale nell’agenda politica di mezzo mondo, ma ancora non è chiaro a cosa ci si riferisca esattamente. Si abusa del termine senza che vi sia una definizione precisa, esaustiva  e universalmente accettata. Banalizzazione, retorica, strumentalizzazione sono i rischi che si corrono a parlarne impropriamente. Perché l’”innovazione sociale” – o social innovation – è prima di tutto una pratica, dalla cui osservazione si sta cercando di ricavare una teoria.

Ed è una pratica non nuova: le sue caratteristiche, che da 15 anni circa si tenta di codificare e tradurre in un linguaggio e in una progettualità non approssimativi, le ritroviamo in interventi molto meno recenti. Allora non si parlava di “innovazione sociale”, non esistevano la tecnologia informatica e i social network, ma gli obiettivi erano gli stessi: attivare cambiamenti in grado di migliorare il benessere della società, a livello locale o globale.

Quando un’innovazione è “social”?

Lslide-02’obiettivo del Bene Comune segna la differenza tra queste pratiche sociali e tutte le altre “innovazioni”, ognuna delle quali ha sì un impatto sociale ma non necessariamente “good”, buono. Ecco la definizione – contenuta nella “Guide to Social Innovation” realizzata dalla Commissione Europea” (febbraio 2013) – che secondo SocialFare esprime meglio il concetto:

“L’’innovazione sociale può definirsi come lo sviluppo e l’implementazione di nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che incontrano bisogni sociali, creano nuove relazioni sociali e collaborazioni. L’innovazione sociale porta nuove risposte ad impellenti bisogni che coinvolgono processi di interazione sociale. Le innovazioni sociali sono sociali solo se utilizzano strumenti e perseguono fini sociali. Le innovazioni sociali aggiungono valore alla società e aumentano la capacità di azione individuale e di comunità”.

Una definizione che nasce dal bisogno di chiarire cos’è – e cosa non è – una pratica ormai prioritaria nell’elaborazione di politiche volte a un’economia sostenibile e inclusiva, elemento centrale della Strategia Europa 2020 che per rilanciare l’economia ha fissato ambiziosi obiettivi in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale, energia/clima.

Tante definizioni

Nel corso degli ultimi anni, in particolare, il tentativo di codificare la pratica della social innovation per imporla con più efficacia all’attenzione politica si è tradotto in numerosi studi che hanno contribuito nel loro insieme a “spingere” sempre più in alto il concetto, anche se – come si è detto – non si è ancora pervenuti a una definizione unica e continuano ad esserci confusione e ambiguità. Interessante, in proposito, uno studio pubblicato nel 2014 da Tara Anderson, Andrew Curtis e Claudia Wittig, allievi del corso universitario “Master of arts in social innovation” attivato dalla Danube University Krems in collaborazione con il Centro per l’innovazione sociale di Vienna.

Lo studio , intitolato “Definition and Theory in Social Innovation”, analizza le varie teorie fino ad approdare alla proposta di una nuova definizione che in poche parole concentra il significato di “innovazione sociale” quale emerge dal dibattito internazionale in corso. Un dibattito in cui “equality”, “justice” e “empowerment” vengono individuati come obiettivi finali – l’impatto – dei cambiamenti sociali promossi, impossibili da centrare senza la rete (co-creation e co-design). Quella rete di cui la social innovation ha bisogno per ottenere maggiori benefici in termini di replicabilità e scalabilità (replicability e scaling up). Tutti termini su cui ci soffermeremo prossimamente nel nostro glossario.immagine blog_glossario social innovation

Il dialogo con le istituzioni

Le molteplici definizioni finora coniate (ognuna delle quali individua obiettivi specifici in base al contesto sociale di riferimento) arricchiscono e contribuiscono a creare una “teoria” che sia capace di aiutare la pratica, facilitando il dialogo e spingendo le istituzioni a indirizzare maggiori risorse all’innovazione sociale.

La social innovation incontra, infatti, non poche resistenze nel suo tentativo di affermarsi come unica possibile alternativa alle soluzioni, orientate all’assistenzialismo, proposte da un welfare tradizionale ormai incapace (perché privo di adeguate risorse) di soddisfare bisogni sempre più pressanti. Di qui l’esigenza di “rigore scientifico”, di ordine e chiarezza in una pratica che sta dimostrando di essere in grado di offrire soluzioni più efficaci, efficienti e sostenibili ai problemi sociali, di far crescere e responsabilizzare individui e gruppi, di accrescere la capacità (capability) della società di agire…

La Banca dei poveri

Un esempio concreto dove sono presenti tutti gli aspetti dell’innovazione sociale secondo le definizioni attuali: dalla Fondazione della Banca dei poveri (Grameen Bank) in Bangladesh ad opera di Muhammad Yunus, nel 1976, il microcredito si è rivelato un efficace strumento di lotta alla povertà. La rivoluzione introdotta è, però, più una riscoperta che un’invenzione: le radici sono molto più antiche e affondano in Italia, 600 anni fa, con i Monti di Pietà. Un’esperienza plurisecolare che Yunus ha adattato alle caratteristiche specifiche del suo Paese, dove gran parte della popolazione vive nelle campagne.

La Grameen Bank (Banca rurale o di villaggio) è stata fonte di ispirazione e di modelli per le numerose istituzioni del settore del microcredito che sono nate in ogni parte del mondo. Al centro, la creazione di reti di fiducia e di sostegno, la consapevolezza che i sussidi ai poveri non spingono a tirare fuori il talento o la creatività ma fanno sentire la gente passiva, esclusa da qualsiasi progetto di riscatto, perciò incapace di migliorare.

immagine blog_grameen bank_yunus“Il microcredito, invece, “permette ai poveri e agli scalzi di accedere a una opportunità che di solito è esclusivo appannaggio dei ricchi – spiega Yunus – Accade così che quegli aspetti della società che sembravano rigidi, fissi e inamovibili comincino a diventare più fluidi, e attraverso lo sviluppo economico le persone si affranchino da tutto un insieme di ingiunzioni e regole”.

L’idea del microcredito è applicabile ovunque, per quanto il modello vada adeguato e calibrato a caratteristiche diverse. Le molteplici esperienze hanno dimostrato che dare credito ai microimprenditori poveri, in particolare alle donne, è possibile ed economicamente sostenibile, attraverso procedure e modalità che valorizzano l’imprenditorialità e le reti sociali locali.

E’ fondamentale, però, che chi eroga i prestiti rivolga sufficiente attenzione all’accompagnamento, al rispetto, all’acquisizione delle competenze necessarie e, soprattutto, alla costruzione di fiducia e senso di responsabilità. Ecco il valore aggiunto del microcredito: non si limita a finanziare, ma rigenera reti di fiducia. E la fiducia genera reciprocità.

FattiFungo!, non si scarta niente

Ludovico Allasio, Alessandro Balbo, Veronica Gallio, Lorena Mingrone, Dario Toso: sono designer con il comune interesse per la progettazione ecocompatibile. Nel marzo 2013 hanno fondato a Torino l’associazione di promozione sociale e culturale  “Officine sistemiche” , ma già dal 2011 uniscono le forze per “costruire” qualcosa al di fuori dell’ambito universitario, dedicandosi alla concretezza della ricerca applicata.

Team_OSLa collaborazione col Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino si è così evoluta in un percorso indipendente dove l’associazione sta sperimentando sul campo un nuovo modo di fare design, all’insegna delle relazioni tra sistemi diversi e delle connessioni tra realtà eterogenee.

SocialFare li ha scoperti nel 2013, dopo aver lanciato l’Open Call “Fai centro” con cui ha coinvolto giovani fino a 35 anni di età nella creazione di un progetto che identificasse e rappresentasse aspetti dell’innovazione sociale. I 5 designer hanno vinto il bando con “LiberaTutti”, un concept, un’idea per consegnare il quartiere (qualunque quartiere) a chi lo vive, per rendere i cittadini conquistatori dei propri spazi semplicemente “votando” con il loro passaggio strade, vie, percorsi di loro gradimento. L’idea andrà concretizzata, e per questo Officine sistemiche si avvarrà della consulenza progettuale di SocialFare per quanto riguarda gli aspetti di social innovation. Ci ritorneremo.

Adesso, però, vogliamo raccontare un’altra storia, un altro progetto di Officine sistemiche: “FattiFungo!”. Progetto che vede il gruppo all’opera nei boschi della Valle di Susa, alle porte di Torino, intenti a raccogliere scarti verdi (fogliame, sfalci, cellulosa) da miscelare ai fondi di caffè per ottenere terreno fertile in cui far crescere i funghi. Ma cosa c’entra tutto questo col design sistemico? E cos’è il design sistemico? Li abbiamo intervistati.FattiFungo_infografica

Alla vostra associazione avete dato il nome di “Officine sistemiche”. Perché?

“Officine” perché tutto parte da qualcosa di concreto; richiama i valori della bottega artigianale, della cultura materiale, del lavoro manuale. L’aggettivo “sistemiche” si riferisce al concetto di design di sistemi secondo cui, come in natura, durante e alla fine di un processo produttivo non ci sono scarti. Ciò che siamo abituati a definire “scarto” in realtà è una risorsa utilizzabile.

Si lavora come un ecosistema fatto di collegamenti. Se alla fine di un processo non si ha la possibilità di utilizzare una risorsa da esso derivata, ci si mette in relazione con altri soggetti che possano utilizzare quella risorsa. Questa relazione crea rete. Più reti creano più sistemi. E’ chiaro che non si tratta di raccolta differenziata, che presuppone ci sia uno scarto.

E che ruolo gioca il designer in tutto ciò?

La nuova figura di designer ha una responsabilità sociale in quello che fa, crea valore aggiunto. Le scelte che compie all’inizio di un processo sono determinanti. E’ una figura trasversale che non fa solo progettazione, non si limita ai processi industriali, ma conosce bene la materia e lavora perché non ci siano scarti. Si interfaccia con altre realtà, altre competenze, condividendo saperi per realizzare un prodotto che risponda a bisogni che emergono da un’analisi del territorio e della società. E analizzando il territorio scopre che ci sono risorse non valorizzate.

E così avete deciso di coltivare funghi utilizzando risorse non valorizzate…

FattiFungo_workshop2“FattiFungo” nasce da un lavoro di ricerca sui fondi di caffè avviato in università in collaborazione con la Lavazza, per capire che utilizzo si potesse farne. Abbiamo approfondito le sperimentazioni, studiato come, dove e perché crescono i funghi e cercato di individuare le risorse disponibili sul territorio piemontese per la realizzazione del progetto. Abbiamo capito che i fondi di caffè vanno associati ad altri “scarti” verdi, disponibili in abbondanza tra i castagneti del Piemonte. La Valle di Susa è ricca di castagneti. Di solito le foglie che cadono vengono bruciate, invece l’approccio sistemico prevede sì di rimuoverle dal bosco per ripulirlo ma non di bruciarle, utilizzandole in altro modo.

Quindi avevate da una parte i fondi di caffè e dall’altra foglie secche…

Queste due risorse insieme creano il substrato per far nascere i funghi. Un fungo in particolare: il pleurotus, una delle specie più coltivate e conosciute nel mondo. Ed è ottimo. Abbiamo anche fatto una prova culinaria: abbiamo chiesto ad un agriturismo della zona di cucinare separatamente il pleurotus prodotto da noi e quello acquistato nei supermercati, senza che noi sapessimo quale stavamo mangiando. Il nostro pleurotus ha vinto palesemente.FattiFungo_piatti

Dove lo avete coltivato?

In una cantina di Giaglione, sufficientemente umida. La proprietaria ha un castagneto, le foglie le abbiamo raccolte lì. Abbiamo recuperato i fondi di caffè dai bar della zona, abbiamo tagliuzzato le foglie per velocizzare il processo e poi le abbiamo bollite per capire se era necessaria la sterilizzazione. Sì, era necessaria. La sperimentazione è durata un anno. Nel substrato abbiamo aggiunto il micelio, l’apparato vegetativo del fungo.

Qual è l’obiettivo del progetto?

Divulgare la metodologia. Il nostro obiettivo non è vendere funghi, ma sensibilizzare sul fatto che non esistono scarti. E poi vorremmo promuovere una coltivazione diffusa sul territorio, per creare un prodotto del territorio, per aggiungere al territorio identità e ricchezza. Non sono necessari grandi investimenti. In valle ci sono tante cantine da sfruttare per la coltivazione.

Avete anche preparato un minikit per coltivare i funghi in casa…

FattiFungo_KitSi tratta di un sacchetto diviso in 3 parti: uno contiene il micelio, un altro gli scarti legnosi e il terzo, vuoto, va riempito coi fondi di caffè. Occorre tenerlo al buio per una settimana e poi spostarlo alla luce. Adesso usiamo il minikit a scopo promozionale, in occasione di fiere ed eventi.

Quest’anno avete realizzato un altro progetto innovativo: “DoubleCLICK”. Di cosa si tratta?

E’ nato dall’esigenza di stampare su materiale non convenzionale di dimensioni non adatte a una stampante tradizionale. Il sistema si compone di 2 mouse collegati a un pennarello e a supporti tecnologici. Il computer visualizza l’immagine da stampare, muovendo il mouse il pennarello disegna dove passa il puntatore. Il pennarello sa cosa deve fare, tu lo accompagni sul foglio. Con DoubleCLICK  ogni disegno è unico e originale in base ai movimenti della persona che lo esegue.DoubleCLICK

Il progetto “DoubleCLICK” sarà presente a Roma dal 3 al 5 ottobre nell’ambito dell’evento “Maker Faire” , seconda edizione europea della mostra dedicata agli inventori del nuovo millennio in programma all’Auditorium Parco della Musica.  Occasione per toccare con mano le invenzioni più innovative quali robot, stampanti 3D, vestiti intelligenti, elettronica open source e oggetti di design ad alta tecnologia. La manifestazione – promossa dalla Camera di Commercio di Roma e curata  da Massimo Banzi, cofondatore di Arduino, e Riccardo Luna – ospiterà 500 espositori, workshop, educational ed eventi interattivi.