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Fare impresa sociale si può, si deve, conviene. Ecco perché

Le diverse esperienze imprenditoriali che un po’ ovunque – anche in Italia – stanno attecchendo in un terreno inaridito dalla crisi si collocano in uno scenario di cambiamento, di rottura con il passato che impone un nuovo modello di sviluppo. Un modello che esprime esempi concreti, quindi reali, di come un’impresa sia capace di generare valore economico e valore sociale allo stesso tempo, facendo incontrare due mondi che fino ad oggi pensavamo opposti e inconciliabili.

L’imprenditorialità sociale è possibile, anzi, auspicabile in una società dove la contrazione delle risorse pubbliche e la crescente disuguaglianza costringono a percorrere nuove strade: alcune non portano lontano, altre sì, con tutti i rischi di fallimento che comporta ogni nuova sperimentazione, soprattutto se non è sostenuta da un’”alleanza” tra le diverse componenti della società civile.

Ne parliamo col prof. Filippo Giordano, dal 2011 docente di imprenditorialità sociale alla Bocconi di Milano, al quale chiediamo innanzitutto: cos’è un’impresa sociale, quali sono gli elementi che caratterizzano questo modello?

Filippo_GiordanoNon c’è una condivisione sul piano scientifico di cosa è un’impresa sociale. Ci sono diverse scuole di pensiero e tantissime definizioni che risentono dei diversi approcci al tema (giuridico, manageriale, economico e sociologico).

Per gli studi di management un’impresa sociale è un’organizzazione che ha come finalità primaria quella di generare cambiamento e impatto sociale, non dando semplicemente risposta ai problemi ma contribuendo alla loro risoluzione. Ciò connota la parola “sociale” in senso ampio. Mentre “l’impresa” è lo strumento attraverso cui si persegue questo scopo.

Un’impresa sociale, come le imprese tradizionali, è infatti basata su un business model market-based in cui la sostenibilità economica ed il perseguimento della missione sono garantiti prevalentemente dalla produzione e vendita di beni o servizi. La finalità sociale di un’impresa, però, fa sì che l’imprenditore agisca nell’esclusivo interesse della missione e non nel suo, destinando ad esempio i margini a favore dell’obiettivo sociale da perseguire.

Eppure non profit e impresa sono due modelli completamente differenti…

Certo. Il concetto d’impresa porta con sé l’elemento del rischio imprenditoriale, dell’innovazione e dall’orientamento al mercato. Questi aspetti non appartengono al non profit tradizionale, che si finanzia prevalentemente con donazioni e contributi pubblici ed eroga servizi gratuitamente e in ogni caso non con logiche market-based.

Anche le logiche di intervento sono diverse. Il non profit tradizionale interviene per rispondere a un bisogno sociale generato dal fallimento del mercato e dello stato. L’imprenditorialità sociale cerca soluzioni innovative in grado di rimuovere i fattori alla base dei problemi. Per questo le organizzazioni che lavorano per favorire l’inclusione sociale possono essere definite imprese sociali.

Inoltre, un modello di impresa sociale impone strategie di funding e diversificazione delle attività che permettano di raggiungere autonomamente la sostenibilità economica. Ma devo dire che su questo il non profit tradizionale sta evolvendo e si verifica una certa convergenza di pratiche. E’ frequente che il non profit, quando incontra il mondo del business, metta in campo esperienze interessanti. Si crea un mondo ibrido dove innovazione e impatto sociale sono legati ala contaminazione di competenze e modelli di business che vengono da più settori.

Quali modelli di impresa sociale esistono oggi in Italia?

Le cooperative sociali sono imprese sociali a tutti gli effetti. Lo sono soprattutto quelle di tipo B, mentre quelle di tipo A possono presentare più elementi di criticità in quanto erogano servizi in convenzione con il pubblico: se il rapporto con la pubblica amministrazione è di dipendenza, vengono a mancare i requisiti di autonomia e orientamento al mercato.

Altri modelli di impresa sociale sono le “Srl” (Società a responsabilità limitata) fondate nell’interesse della comunità, per rispondere a  suoi bisogni, o le imprese sociali ex lege. E poi c’è tutto il tema delle startup innovative a vocazione sociale. Però ripeto: se portiamo la discussione sulle formule giuridiche sbagliamo strada. Parlare di impresa e imprenditorialità sociale significa prima di tutto discutere di un nuovo modo di concepire sia il sociale che le modalità di intervento.

Può farci degli esempi concreti?

A Padova il consorzio di cooperative sociali di tipo B “Officina Giotto” accompagna al lavoro disabili e realizza nelle carceri programmi di reinserimento dei detenuti coinvolgendoli nel contesto di un’azienda che intende essere competitiva sul mercato.

Sant'AgostinoA Milano il Centro medico Sant’Agostino è una srl promossa da Oltre Venture, il fondo di venture capital sociale di Luciano Balbo. Si tratta di una rete di poliambulatori specialistici che sperimentano un modello di sanità che concilia qualità elevata e tariffe accessibili per rispondere a un bisogno crescente e insoddisfatto di una larga parte di popolazione.

In Toscana l’impresa sociale Dynamo Academy srl con i proventi delle sue iniziative di formazione ed eventi aziendali contribuisce – secondo un modello nato negli Stati Uniti – alla sostenibilità economica di Dynamo Camp onlus, organizzazione non profit che ospita gratuitamente in campi estivi bambini malati grazie a donazioni e al 100% dei margini di attività di Dynamo Academy.

untitledMarioWay” è una  startup innovativa a vocazione sociale che sta lanciando un nuovo modello di sedia a rotelle che permette al disabile di portarsi ad altezza naturale: qui c’è anche il tema  dell’innovazione tecnologica applicata a un oggetto, la sedia a rotelle, che non viene innovato dal 1932.

In Italia l’attuale quadro normativo favorisce lo sviluppo dell’imprenditorialità sociale?

No. L’unico quadro normativo consolidato riguarda il mondo delle cooperative sociali. E’ questo il modello prevalente in Italia. In Inghilterra per costituire una community interest company, cioè un’impresa sociale, ci vogliono 3 giorni e 35 sterline; ma occorre poco anche per mettere in piedi un’impresa tradizionale. In Italia è tutto più complicato.

Però il dibattito in corso nel nostro Paese è molto vivace…

Certo, ci sono aspetti positivi, si cerca di dare la possibilità ad altre forme giuridiche tipicamente profit di fare impresa sociale. Ma l’impostazione italiana va prima a verificare “chi” sei e poi “cosa” fai. Se sei una cooperativa sociale va bene. Il modello anglosassone, invece, guarda prima al “cosa”, alla sostanza,  più che alla forma, con un approccio che crea elementi di flessibilità.

Il dibattito italiano si sta ponendo il problema dell’inclusività, ma si continua a ragionare sul “chi”. Il Governo dovrebbe dare legittimità all’imprenditorialità sociale, leva straordinaria per promuovere la crescita e l’occupazione del Paese; dovrebbe  creare un ambiente normativo favorevole, un ecosistema, ma aldilà delle dichiarazioni di facciata ciò non sembra essere una priorità politica.

Il tema delle community interest company in Inghilterra viene gestito dentro il ministero dello Sviluppo economico,  mentre in Italia il tema è gestito dal ministero del Welfare. Segnale importante che in Italia l’argomento viene relegato al mondo del sociale in senso stretto.

Come vede il futuro degli attuali sistemi socio economici occidentali?

Sicuramente non sono sostenibili. Tutte le ricerche che riguardano il consumo delle risorse del pianeta ci dicono che nel 2050 avremo bisogno di risorse pari a due pianeti e mezzo con gli attuali livelli di consumo e i trend demografici; inoltre, questo sistema sta aumentando il gap tra ricchi e poveri: non è un caso che i segnali di crescita del pil dei Paesi occidentali non siano accompagnati dalla crescita dei livelli occupazionali.

Cosa occorre dunque per promuovere il cambiamento sociale e un’economia “positiva”?

Abbiamo bisogno di attori economici e politici che prendano decisioni in prospettiva di lungo periodo. Abbiamo bisogno di modelli imprenditoriali che non solo creino valore economico, ma in cui il valore creato venga distribuito equamente su tutta la filiera. Occorre promuovere un sistema economico in cui nel fare impresa e nel concepire anche interventi pubblici ci siano al centro valori come l’equità, l’inclusione sociale e la sostenibilità ambientale.

“Social Renaissance”: ampia partecipazione e tanti nuovi imput

La volontà di creare per la prima volta in Italia un’occasione di confronto internazionale sulla social innovation si è tradotta, giovedì 26 giugno a Torino presso il teatro Juvarra, in una giornata particolarmente ricca di contributi e di imput. Innovatori sociali provenienti da tutto il mondo si sono alternati in dense sessioni di lavoro da cui è emersa una realtà in fermento che sta costruendo reti che sappiano affrontare le sfide poste dalla crescente disuguaglianza sociale. Una rete di attori pubblici e privati che a livello globale promuovono lo sviluppo di modelli di economia sostenibile e inclusiva.

slideshow_Social-RenaissanceNon a caso la conferenza “Social Renaissance” – il cui titolo definisce un processo volto a riportare al centro delle decisioni politiche le “periferie sociali” – si è svolta a Torino, dove la ricerca di soluzioni innovative per rispondere ai bisogni emergenti ha una lunga tradizione. E non a caso gli spazi che l’hanno ospitata sono quelli del Teatro Juvarra, presso il complesso dell’Artigianelli: “quartier generale” dell’Opera Torinese del Murialdo (che porta avanti l’attività missionaria del santo sociale Leonardo Murialdo a favore di minori e giovani in difficoltà) e dal 2012 anche sede di SocialFare, che insieme con TOP-IX e Torino Social Innovation ha organizzato l’evento. A don Danilo Magni, dunque, il compito di fare gli onori di casa in un teatro destinato a diventare cantiere in progress di cultura e innovazione sociale.

Oltre 30 speakers in rappresentanza di istituzioni, fondazioni e università locali, nazionali, europei e americani hanno raccontato la propria esperienza, tutti spinti dal bisogno di confrontarsi su significato, concetti e pratiche dell’innovazione sociale. Attraverso esempi concreti si è parlato di scalabilità, sostenibilità, partecipazione e cittadinanza attiva, responsabilità, big data, trasversalità, resilienza, imprenditorialità… Della necessità, di fronte alle sfide sociali, di una innovazione che sappia rompere i vecchi schemi, fare incontrare impresa e non profit, convogliare le diversità e spingerle – nel rispetto di ognuna – verso un nuovo modello di sviluppo.

Alcuni esempi. In Canada l’innovazione sociale è ormai una priorità del Governo, mentre in Portogallo il Banco de Inovacao Social sta portando avanti un programma che prevede un cambiamento sistemico, affrontando i problemi alla radice: cioè cominciando già nelle scuole a creare un nuovo atteggiamento di cittadinanza affinché le persone si convincano di poter cambiare le cose. A New York il Public Policy Lab aiuta i cittadini a capirci qualcosa su come vengono assegnate le case popolari e a scegliere in modo consapevole e informato a quale istituto scolastico superiore (tra i 700 esistenti) iscrivere i figli.

E poi, a Baltimora, il sostegno da parte del centro Social Innovation Lab alla nascita di aziende con buone idee da “vendere”, così come a Torino il Comune sostiene la nascita di imprese sociali mettendo a disposizione un insieme di strategie e strumenti attraverso il programma “FaciliTo giovani e innovazione sociale”. Ancora, per restare nel capoluogo piemontese, il Piano “Torino metropoli 2025” vede l’associazione “Torino Internazionale” e il progetto “Torino strategica” impegnati o costituire “visioni, strategie e azioni che promuovono l’identità e lo sviluppo dell’area metropolitana torinese mobilitando tutti gli attori locali”. SR_Illustration

Queste e tante altre esperienze sono state raccontate alla conferenza, che ha visto un’ampia partecipazione di addetti ai lavori, soprattutto giovani. L’innovazione sociale si è chiaramente delineata come un processo sociale, economico, politico e tecnologico in grado di distruggere vecchie barriere. Un processo in cui l’universo italiano delle cooperative sociali e del non profit in generale giocano un ruolo fondamentale per la loro consolidata capacità di intercettare i bisogni e realizzare progetti non standardizzati. Come ha sottolineato Mauro Busa dell’Alleanza cooperative italiane Piemonte, “le cooperative possono fare innovazione sociale, ma sarebbe auspicabile una maggiore chiarezza nelle metodologie. Il concetto non è così immediato e intuitivo”.

Per essere sostenibile la social innovation ha anche bisogno di risorse finanziarie da attingere a più fonti e con nuove modalità, cambiando il sistema delle regole attuali e individuando nuovi modelli di ingaggio. “I progetti richiedono interventi filantropici, capacità di politica pubblica, energie di mercato e capacità di far cooperare mondi finora distinti”, ha sottolineato Piero Gastaldo della Compagnia di San Paolo.

L’innovazione sociale interpella dunque fondazioni e banche, nell’ambito di un nuovo assetto collaborativo tra diversi soggetti. L’esperienza di Banca Prossima (la banca del Gruppo Intesa San Paolo dedicata al Terzo Settore) rappresenta un esperimento di sostenibilità finanziaria dei progetti realizzati dal Terzo settore, al quale vengono riconosciute caratteristiche proprie ben lontane dalla logica del “for profit”. “I servizi del for profit sono contingentati, mirati, chirurgici – ha detto Marco Morganti – Il bene collettivo non è il loro obiettivo e spesso, quando intervengono nel campo socio sanitario assistenziale, ne escono con le ossa rotta. Alla fine il gioco non è sostenibile”.

Per Banca Prossima, dunque, il criterio di efficienza non è così determinante per la concessione di un prestito: “L’efficienza è sì importante, ma non deve andare contro gli obiettivi sociali di un’organizzazione”, ha continuato Morganti. Più importanti sono invece la fiducia e la rete comunitaria che sostiene il progetto, a garanzia della sua riuscita.

SocialFare ha annunciato durante la conferenza la propria partnership con Young Foundation UK ed esplicitato i soggetti che già si stanno aggregando a livello regionale e nazionale alla piattaforma aperta SocialFare per costruire insieme conoscenza ed imprenditorialità sociali: Rinascimenti Sociali, appunto.

Così il Terzo Settore può aiutare l’Italia ad uscire dalla crisi

Il manifesto “Fiducia e nuove risorse per la crescita del Terzo Settore” ha fatto tappa a Torino. L’incontro che si è svolto giovedì 19 giugno presso la Casa della Cooperazione rappresenta il secondo (dopo Salerno) dei dieci appuntamenti del roadshow che nei prossimi mesi porterà il documento in giro per l’Italia. Occasione di progettazione condivisa sul territorio che chiama a raccolta  le realtà del non profit, la finanza specializzata e le fondazioni di origine bancaria e non affinché insieme promuovano e sostengano “un’altra economia, basata non sul profitto ma sulla partecipazione e sulla produzione di bene comune”. Un’economia sociale e solidale che faccia uscire l’Italia dalla crisi.

Acri – Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio Spa, Assifero, Fondazione Cariplo, Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariparo, Fondazione con il Sud, Forum del Terzo Settore, Alleanza Cooperative Italiane e Banca Prossima (la banca del Gruppo Intesa Sanpaolo dedicata al non profit laico e religioso) si sono dunque alleati firmando a Roma nel dicembre scorso un manifesto in grado di creare le condizioni per “far incontrare le migliori idee e tutti gli strumenti di supporto disponibili”. Strumenti finanziari moderni, innanzi tutto, che aiutino il Terzo Settore a sviluppare le sue enormi potenzialità e ad essere volano per la ripresa economica.

body_condivisioneIl non profit (associazionismo di promozione sociale, volontariato, cooperazione) è capace, infatti, di generare occupazione: le cooperative sociali, ad esempio, dal 2011 al 2013 hanno creato 20 mila nuovi posti. Ancora, secondo l’ultimo censimento Istat in Italia le organizzazioni del Terzo Settore sono cresciute in dieci anni del 28% con un aumento degli addetti pari al 39,4%. In Piemonte le realtà sono 25.962, di cui 11.099 nella provincia di Torino. Ed è nel torinese che il non profit è più strutturato in senso imprenditoriale, con una più accentuata presenza di lavoratori retribuiti e un maggior risultato economico.

I quasi 5 milioni di volontari e 1 milione tra lavoratori e soci a livello nazionale rendono numericamente le dimensioni di una realtà di cui lo stesso Governo italiano si è “accorto”, dedicandole grande attenzione con un progetto di riforma di cui sono state recentemente rese note le linee guida. Ma ci sono altri numeri che meritano considerazione, sottolineati nel corso dell’incontro a Torino dal ricercatore Euricse Flaviano Zandonai: l’Istat ha misurato anche il livello di competenza degli addetti, da cui è risultato che il 18% di coloro che sono retribuiti hanno competenze di alto livello. Così come è emerso che il 20% dei volontari è costituito da giovani.

Insomma, il non profit italiano è un settore vitale e dinamico da cui può partire un nuovo modello di sviluppo del Paese. A patto che si sappia dove e come investire, secondo strategie che superino l’approccio del “giorno per giorno” e la logica emergenziale. Marco Morganti, amministratore delegato di Banca Prossima, ha evidenziato come il credito finora erogato al non profit (e restituito, dato più che positivo, nel 98,8% dei casi) sia stato investito prevalentemente in progetti a breve termine, mentre sono quelli a medio-lungo termine che “fanno la crescita vera del Terzo Settore”.Donazioni-150x100

Quali progetti, dunque? Guido Geninatti, portavoce dell’Alleanza delle Cooperative Italiane settore sociale del Piemonte, ha indicato alcuni ambiti di intervento su cui scommettere: la cura delle persone non autosufficienti, la salute del territorio (con servizi che vengano prima e dopo la fase ospedaliera), l’housing sociale, la tutela del patrimonio ambientale e culturale … Ambiti in cui sperimentare nuove soluzioni che perseguano obiettivi di efficienza e di economicità, di innovazione di prodotto e di rigenerazione di beni immobili e spazi pubblici. “Il settore del privato sociale – ha dichiarato Marco Demarie, capo Uffici studi e programmazione della Compagnia di San Paolo – può e deve dotarsi di modalità di organizzazione più efficienti senza per questo smarrire la sua vocazione orientata al bene collettivo e la sua ispirazione morale. Uno dei temi legati alla maggiore efficienza nell’uso delle risorse ha a che fare con l’uso intelligente del credito”.

E’ nel quadro della convergenza tra profit e non profit che si colloca l’innovazione sociale. Anche se,  ha sottolineato Anna Di Mascio, portavoce piemontese del Forum Terzo Settore, “non può esserci innovazione se le dimensioni economica e sociale non vengono intrecciate e valutate insieme. L’innovazione dei prodotti non basta”.  Ecco allora la necessità di precisare quali sono gli elementi cardini dell’innovazione sociale: cos’è, come si fa, come si inserisce in un contesto di crisi che vede il ricorso sempre più frequente ad antiche forme assistenziali come, ad esempio, la distribuzione dei pacchi viveri? Una risposta, a conclusione dell’incontro, è arrivata da Elide Tisi, vice sindaco di Torino: “La sfida è di provare a strutturare delle risposte nell’emergenza: è questa la vera innovazione. L’innovazione non può nascere a tavolino ma nella pratica, di fronte all’emergenza, magari anche recuperando modalità antiche, che vanno però strutturate”.

 

“Fiducia e nuove risorse per la crescita del Terzo settore”: intervista a Pietro Barbieri

Oltre 301 mila organizzazioni, 950 mila posti di lavoro, 681 mila dipendenti, 4,7 milioni di volontari, entrate pari al 4,5 per cento del Pil. I numeri del Terzo settore descrivono un mondo in crescita: dal 2001 ad oggi le organizzazioni e gli addetti sono aumentati rispettivamente del 28%  e 39%; le sole cooperative sociali dal 2011 al 2013 hanno creato 20 mila nuovi posti di lavoro.

untitledE’ il ricco e variegato mondo del non profit italiano (associazionismo di promozione sociale, volontariato, cooperazione), che agisce là dove il welfare pubblico non arriva o si sta ritirando. Un mondo che oggi attende una riforma che sappia raccogliere sfide importanti, a partire dall’aggiornamento di tecniche e metodologie della raccolta fondi (rivedendone anche il senso) e dal rafforzamento dell’internazionalizzazione, fino alla creazione di una rete che faccia crescere l’aggregazione e migliori l’efficienza degli interventi, passando per la riduzione degli sprechi e l’esplorazione di terreni di interesse collettivo nuovi.

In particolare, le nuove richieste e necessità economico-finanziarie del settore non profit richiedono strumenti innovativi. La raccolta fondi non è meno importante del reclutamento dei volontari e le risorse cui attingere sono rappresentate oggi dal risparmio privato, che in Italia – secondo dati riferiti al 2011 – vale oltre 8 miliardi di euro, 4 volte e mezza di più del debito pubblico.Donazioni-150x100

E’ ai cittadini, dunque, che si chiederà sempre più di finanziare, di investire (ottenendone anche dei ricavi) su progetti sociali che producono bene comune. Ed è in questa direzione che si colloca il Manifesto “Fiducia e nuove risorse per la crescita del Terzo Settore”, un’alleanza tra le principali realtà produttive e sociali del Paese: organizzazioni non profit, fondazioni di origine bancaria e non, finanza specializzata.

Il Manifesto è stato firmato a Roma nel dicembre scorso e attualmente sta girando l’Italia attraverso eventi di presentazione finalizzati alla costruzione di reti locali. A Torino, come abbiamo già annunciato due settimane fa, l’iniziativa sarà illustrata giovedì 19 giugno alle 10 presso la Casa della Cooperazione in corso Francia. Ulteriore contributo al vivace dibattito in corso sulla riforma di un settore a cui l’attuale Governo – che peraltro dal prossimo mese assumerà fino alla fine del 2014 la presidenza del Consiglio dell’Unione europea – promette di dare nuovo impulso.

Sul Manifesto e sulle prospettive di sviluppo del mondo non profit abbiamo rivolto alcune domande a Pietro Barbieri, portavoce nazionale del Forum del Terzo Settore.

Come si è arrivati al Manifesto?

1554390_668044719911749_2234013227615667838_nOccorre un’azione che promuova la capacità oggettiva del Terzo settore nell’acquisizione di strumenti a sostegno della propria attività. Il Manifesto nasce dalla voglia di mettere insieme soggetti privati per sviluppare capacità nuove, innovative, di relazione tra soggetti che compongono e costruiscono le opportunità del Terzo settore: cittadini impegnati, banche, fondazioni…  E’ il primo tentativo del genere che si fa, attraverso la costruzione di tante reti nel territorio.

In concreto, come agirà questa rete?

Non c’è nessuna velleità particolare di costruire nuove forme di rappresentanza, ma si intende veicolare nei territori, nel concreto dell’agire, la condivisione di obiettivi generali. Da un lato, le entità del Terzo settore conoscono le opportunità che oggi ci sono di trovare sostegni finanziari: ormai quasi tutte le banche riconoscono che il Terzo settore crea loro poche sofferenze perché difficilmente porta i libri in tribunale. Dall’altro lato, le fondazioni di origine bancaria si pongono non solo come erogatori, ma come costruttori di opportunità, interpretando i bisogni del territorio e cercando di dare risposte con bandi specifici.

In Italia il Terzo settore sta crescendo…

Cresce in particolare la partecipazione dei giovani. Una partecipazione che molto spesso è informale, non legata all’adesione a organizzazioni ma alla disponibilità a fare volontariato nei momenti di bisogno. Durante l’emergenza in Sardegna per l’alluvione del novembre scorso, ad esempio, i giovani sono stati centrali: se non ci fosse stata una loro mobilitazione avremmo avuto molti più morti.  body_condivisione

 Le prestazioni e i servizi che il Terzo settore eroga attraverso il lavoro devono trovare nuove forme di sostegno, ad esempio coinvolgendo i cittadini risparmiatori: come contate di conquistare la loro fiducia?

Il nostro Governo spende nelle politiche sociali meno della metà della media europea: tra i 27 Paesi, noi siamo agli ultimi posti per il Pil. Ad esempio, la spesa pubblica per l’assistenza agli anziani è ridotta, mentre quella privata delle famiglie non è ancora stata intercettata dal Terzo settore. Quando i Comuni hanno creato i servizi sociali grazie alla spinta dei movimenti, si pensava a una graduale progressiva salita della spesa pubblica per garantire servizi ad anziani non autosufficienti. E invece si è tagliato. Si era cercato, da un lato, di costruire il diritto di tutti i cittadini in difficoltà ad avere assistenza e, dall’altro, di costruire un sistema che desse dignità al lavoro sociale.

La mancata crescita del welfare ha dato vita alla spesa privata delle famiglie, ma soprattutto ha determinato la costruzione di una politica nazionale in cui improvvisazione e lavoro nero hanno impedito la crescita di valore del lavoro sociale. Occorre professionalizzare il lavoro delle assistenti familiari.

Altro ambito di intervento è quello dei beni comuni: nel nostro Paese i beni architettonici, culturali, paesaggistici sono mal gestiti. Già oggi il Terzo settore interviene con iniziative, ma occorre una strutturazione solida e forte per cogliere le nuove opportunità di valorizzare il nostro territorio anche attraverso  risorse adeguate messe a disposizione dai cittadini. Un esempio: in un paese delle colline emiliane un gruppo di cittadini ha creato una cooperativa per occuparsi a proprie spese di un’antica fontana abbandonata e per garantirne la cura anche in futuro. Questo è il messaggio che oggi siamo nelle condizioni di trasmettere.

Altra sfida: l’internazionalizzazione

innovazione-terzo-settore-crisiIn Italia abbiamo un modello del Terzo settore che si distingue da quello anglosassone per i presupposti di democrazia (si vota per eleggere i rappresentanti), forte partecipazione e lotta alle disuguaglianze sociali. Questa nostra cifra può trovare un suo riconoscimento anche in altri luoghi dove vi sono strategie che condizionano la vita del nostro stesso Paese: condizionare cioè la società civile degli altri Paesi perché condizionino i loro Governi ad adottare politiche espansive.

Le nostre reti nazionali e le relazioni europee costruite da molte Ong sono gli strumenti per perseguire questo obiettivo.

A luglio l’Italia assumerà per sei mesi la presidenza del Consiglio dell’Unione europea: quali speranze riponete in questo semestre?

Prima questione: ragionare attorno alle politiche di austerità introdotte che hanno un impatto sociale sempre più pesante. Seconda: avere garanzie che una regolamentazione di tipo europeo del Terzo settore non vada a frustrare l’identità stessa del non profit. Non deve circolare l’idea del “low profit”, trasformando l’impegno civico dei cittadini in un interesse di qualcuno. Il tentativo di leggere la crisi del welfare come momento per avvicinare mondo delle imprese a quello del non profit può portare alla creazione di sinergie comuni. Se ciò non andasse in porto, vincerebbe l’impresa.

 

Largo al secondo welfare

Pressati dalla crisi economica, i governi europei devono contenere i costi con la conseguenza che non riescono più a far fronte ai bisogni sociali della popolazione, che invece sono in crescita.

Ecco allora l’ingresso sulla scena del welfare di altri soggetti disposti a contribuire – con risorse economiche ma soprattutto organizzative e relazionali – alla realizzazione di servizi che integrino gli interventi pubblici. Attori privati (imprese, fondazioni, terzo settore…) e pubblici uniscono quindi forze e capacità creando una rete capace di dare vita a un nuovo stato sociale, con strategie innovative e condivise.

logo_secondowelfareA monitorare in Italia il mondo del secondo welfare è il progetto “Percorsi di secondo welfare” realizzato dal Centro Einaudi in partnership con ANIA, Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione con il Sud, KME Group, Luxottica e Corriere della Sera. Avviato nel maggio 2011 con l’obiettivo di ampliare e approfondire il dibattito sulle trasformazioni dello stato sociale in Italia, il progetto focalizza l’attenzione sulle esperienze in corso arricchendo un dibattito che raccoglie un numero crescente di voci.

Il progetto ha pubblicato recentemente il “Primo rapporto sul secondo welfare”, che potete leggere seguendo questo link.