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Il cambio di paradigma dell’impresa sociale: intervista a Laura Orestano per il XV Workshop sull’Impresa Sociale di Iris Network

Ringraziamo Federico Zappini per l’intervista a Laura Orestano, CEO di SocialFare, realizzata in occasione del XV Workshop sull’Impresa Sociale “Innovazione e Riforma all’ultimo miglio” promosso e organizzato da Iris Network a Riva del Garda il 14 e il 15 settembre 2017.

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Partiamo dall’esperienza di SocialFare e dal suo sguardo sul mondo. Cosa avete intercettato di curioso negli ultimi anni? Che idea vi siete fatti del mondo del terzo settore e dell’impresa sociale in transizione e che ruolo vi siete dati all’interno di questo passaggio di fase, nell’ultimo miglio che suggerisce il titolo del Workshop?

L’esperienza di SocialFare nasce da un’intuizione e da una visione. I fondatori della Congregazione dei Giuseppini del Murialdo hanno da sempre posto al centro del loro impegno i temi dei giovani e del lavoro. Su quella base si è elaborato un particolare approccio all’innovazione sociale, creando un centro ad essa dedicato. Fino al 2013 – anno di nascita di SocialFare – in Italia non esisteva nulla di simile.

Questa è la parte di visione, in termini di reinterpretazione dei valori che erano già parte della storia dei soci fondatori, una visione che ha incrociato l’intuizione che l’innovazione sociale avrebbe generato un nuovo campo di potenziale sviluppo per l’Italia in generale, oltre che per l’impresa sociale. Era da cogliere quindi la sfida da di costruire qualcosa che aiutasse almeno a definire il fenomeno, per poi riuscire ad aggregare i soggetti interessati.

Quello che abbiamo notato immediatamente era il bisogno di sinergie e innovazione fra gli attori del terzo settore. Ci siamo posti come riferimento per tutti coloro che si dimostravano più sensibili a istanze di innovazione. Non era quindi solo una nostra intuizione ma era un bisogno di molti, che poco per volta – a Torino e poi scalando velocemente a livello europeo – abbiamo modellizzato, facendo crescere le nostre attività. Abbiamo percepito da subito la presenza di fermento, di un sentire diffuso che aveva necessità di collegamenti, di fare insieme.

L’ultimo miglio, da questo punto di vista, è fatto di strumenti e metodologia.

Mancavano degli strumenti così come mancava un approccio metodologico, un riordino – esigenze anche recepite all’interno della recente riforma del terzo settore – per attuare e sostenere lo sviluppo del terzo settore in chiave contemporanea. Si apre ora una prateria di possibilità per le imprese sociali. Dati gli strumenti, ora c’è l’esigenza di costruire, di prototipare, di rendere scalabili i modelli. Un territorio affascinante, sia per l’innovazione possibile che per l’ibridazione dei linguaggi e degli attori coinvolgibili.

Rigenerazione di beni comuni, cultura, agricoltura, servizi di prossimità, lavoro, tecnologia, condivisione, sviluppo di comunità sono solo alcuni dei macro-settori dentro i quali l’innovazione sociale tende a incrociare la strada con il welfare più tradizionale. Come fate parlare tra loro questi mondi? Passato e futuro dialogano o si scontrano? Chi sono i facilitatori che possono creare relazioni di valore?

Non deve esserci una rottura tra passato e futuro. Ci deve essere un continuum perché il passato ha fortissime esperienze, che non possono essere disperse. Il know-how delle relazioni e il valore della fiducia creata sono punti fondamentali per costruire un ecosistema e stimolare un passaggio culturale.

Il tema dell’ibridazione è per me cruciale. C’è sicuramente chi si oppone, chi guarda con sospetto il nuovo. Per favorire questo nuovo percorso serve condividere degli obiettivi, lavorare per far convergere su priorità delle comunità di riferimento e su di esse sviluppare linguaggi riconosciuti. Il tema del riconoscimento reciproco è il punto di partenza.

Riconoscersi è creare fiducia.

Al tempo stesso si devono anche scegliere strumenti e metodologie, questione che riguarda il campo della conoscenza e delle competenze. Queste si trasferiscono essenzialmente facendo insieme. Non sono una sostenitrice di accompagnamenti frontali e troppo strutturati/disciplinati, ma preferisco meccanismi che si basino sul learning by doing, sul capacitare l’intelligenza collettiva.

Gli attori di questa nuovo approccio strategico, capaci di costruire ponti, possono essere di tipo tradizionale (penso alle cooperative classiche), ma la parte più interessante è quella rappresentata dai nuovi protagonisti, quelli che portano competenze altre e con esse linguaggi diversi: giovani e comunità di pratica, nuovi soggetti finanziari quali social investor, social impact funds, designer di servizi, startupper, esperti di tecnologia, territorio, modelli, etc. Servono loro in primis.

Sono tutti quelli che potranno essere coinvolti in maniera significativa per azioni di comunità agili e significative, modellizzabili e scalabili, quindi sostenibili anche economicamente. Li voglio definire ancora in modo macro, perché i soggetti che ho menzionato concorreranno in modo diverso alle comunità, alle azioni, ai casi che sapremo cogliere per sviluppare nuovi prodotti, servizi e modelli.

Quale sarà il ruolo, dentro questa necessità di essere osservatori e interpreti delle comunità, di tutti quei luoghi – coworking, community hub, spazi culturali di nuova generazione, ecc. – che riconosciamo come innovativi?

Siamo di fronte a un’ampia varietà di tipologie. Esiste un fermento “a nebulosa” – pur con delle polarizzazioni – che non ha ancora espresso delle specializzazioni definite. Una cosa interessante dell’innovazione sociale, rispetto ai nuovi luoghi che la possono favorire, è che essi sono attraversati anche da un fenomeno di innovazione organizzativa. Lì dove si trovano spunti di innovazione sociale si incontrano anche interessanti riferimenti per nuovi modelli organizzativi orizzontali, aperti, flessibili, dinamici e integenerazionali.

La capacità di intercettare questa mutazione dipende da come si costruiscono le relazioni, così come dagli obiettivi che si vogliono perseguire.

Quando i coworking diventano luoghi dove poter stabilire la propria residenza lavorativa ma non si specializzano, non convergono su obiettivi, rilevanza e posizionamento senza andare quindi oltre l’organizzazione di eventi di networking più o meno coerenti, il loro potenziale come hub di intelligenza e competenze collettive non viene mantenuto o sfruttato a pieno. Dove invece essi sono in grado di tracciare una propria unicità e vanno incontro al genius loci delle realtà nelle quali si situano, possono diventare generatori di innovazione sociale per l’intera comunità di riferimento.

Penso a specializzazioni e convergenze che si stanno realizzando su temi quali il digitale, smart city, healthcare, patrimonio artistico, ambiente e territorio, servizi di comunità, sharing, etc. È know-how diversificato che converge non solo in uno spazio ma evolve il proprio posizionamento collettivo in luoghi di intelligenza e saper fare contestuali e sempre aperti al mondo, a esperienze internazionali, a collaborazioni e reti di eccellenza…Questo non vale solo per i coworking ma per una miriade di diverse realtà che si relazionano con i contesti sociali, economici e culturali contemporanei.

La riforma oltre ad agire un necessario riordino delle variegate anime del terzo settore si propone di indicare una serie di strumenti – detrazione d’imposta sugli investimenti, accesso più strutturato a volontariato e Servizio Civile, agevolazioni per aumento di capitalizzazione – per aiutare quello che il Sottosegretario Bobba definisce “un ecosistema adatto per lo sviluppo delle imprese sociali”. Vi siete già fatti un’idea di quali tra le opportunità che la legge propone potranno avere maggior importanza nel prossimo futuro?

Dal mio punto di vista trovo interessante la possibilità di avere maggiore o più facile capitalizzazione dell’impresa sociale e del ruolo che attori finanziari possono avere. Guardo con curiosità anche alla decontribuzione scale sulla partecipazione agli investimenti. In generale l’aspetto finanziario mi sembra rilevante, fondamentale perché l’impresa sociale ha bisogno sia di maggiori capitali che di finanza ibrida. La riforma si muove in questa direzione. Tutto il resto è sicuramente utile – proprio nell’ottica del riordino dell’intero settore – ma il tema finanziario potrebbe essere quello decisivo e centrale.

Per un certo periodo alcune parti del terzo settore sono diventate dei prestatori di servizi a favore delle amministrazioni pubbliche. Un compito importante ma che con il tempo ha prodotto forme degenerate d’intervento e un rapporto di eccessiva dipendenza dal Pubblico, che oggi – a causa di una generale restrizione delle risorse a disposizione e di un parallelo cambio di approccio al welfare – richiede al terzo settore un salto di qualità in termini di comprensione del contesto sociale, capacità di progettazione e definizione dei tratti generativi dell’intervento svolto. Due argomenti diventano fondamentali e meritano attenzione particolare: innovazione e valutazione degli impatti. Dove sta l’innovazione che tutti cercano? Come potrebbe/dovrebbe avvenire la valutazione degli impatti che la riforma rende obbligatoria?

La dipendenza dal Pubblico va re-interpretata in chiave di ibridazione: non più un rapporto a due ma una relazione multi-stakeholder basata su competenze reali ed evidenza di risultati generati e misurabili. Innovazione e valutazione dell’impatto generato sono elementi dinamici ed evolutivi. Cerchiamo di trovare dei punti di riferimento ma non facciamoci intrappolare dai punti di riferimento stessi. Questi non devono essere confini rigidi ma un faro grazie al quale orientarsi. Dobbiamo capire che mentre facciamo innovazione e misuriamo l’impatto siamo di fronte a qualcosa che cambia, che si muove in maniera costante.

Dove si trova l’innovazione? Per me sta nelle comunità, dentro chi agisce pratiche e persino nei policy maker che sanno co-interpretare in modo aperto e dinamico le nuove sfide sociali.

L’innovazione sociale non è efficientamento e dobbiamo fuggire dalla logica del fare meglio e in modo più veloce quello che facevamo prima. Quella non è – da sola – innovazione. Innovazione sociale è ciò che sviluppa nuove soluzioni alle sfide sociali contemporanee, generando nuova economia e migliorando la vita individuale e della società.

L’impresa sociale è al centro di questa sfida e ha di fronte enormi opportunità; ecco perché deve possedere strumenti di misurazione dell’impatto atteso e/o generato anche al proprio interno; tuttavia, ai fini di un’obiettiva rappresentazione e comparazione tra gli attori in campo, è bene che siano enti terzi a effettuarne la valutazione. Ci sono una serie di aree per la misurazione – governance, comunità, accessibilità, innovazione, partecipazione, ruolo della tecnologia, inclusività – che rappresentano solo alcuni degli indicatori possibili.

Altri certamente seguiranno nel momento in cui saremo in grado di sperimentare e modellizzare l’innovazione da un lato, ma anche comprendere ciò che all’interno di essa non ha funzionato e va quindi modificato. Ci attendono anni di grande generatività che auspico aperta e partecipata affinché i nuovi modelli che emergeranno possano essere considerati “bene comune”, parte dello sforzo collettivo di progresso sostenibile del quale siamo tutti responsabili.

Scarica qui l’intero programma della XV edizione del Workshop sull’Impresa Sociale di Iris Network e le interviste agli speaker che sono intervenuti.

La sostenibile leggerezza delle dolci “Furezze”

Quando acquistiamo un prodotto difficilmente facciamo attenzione al “contenitore”. Ci chiediamo quanta energia e quante risorse vengono consumate nella realizzazione di imballaggi che finiscono nella pattumiera non appena il “contenuto” è stato liberato? Un alimento, per quanto “buono, pulito e giusto”, può essere ritenuto sostenibile (nelle dimensioni sociale, economica e ambientale) se è confezionato in packaging poco sostenibili?

slowpack-01-1Segnali di cambiamento, di svolta, di un’accresciuta sensibilità e attenzione ad aspetti finora trascurati si registrano però con sempre maggior frequenza. Comportamenti virtuosi si diffondono sulla scia della crisi sistemica in atto, che impone – oltre ai tagli alle spese – una riflessione sui nostri stili di vita e sulla necessità di un consumo più critico. Riflessione che si allarga grazie anche ad eventi in grado di raggiungere un vasto pubblico. Ad esempio “Slow Pack”, il concorso che il Salone del Gusto e Terra Madre dedica ai migliori packaging.

Tra le realtà imprenditoriali italiane e del Sud del mondo che sono state premiate nell’ultima edizione, abbiamo già raccontato l’esperienza di un’impresa indonesiana che confeziona i sali di Bali in imballaggi artigianali di pietra vulcanica locale. Vogliamo adesso soffermarci su “Le Furezze”, una start up nata un anno fa a Verona dall’intraprendenza di Francesca, Chiara ed Elisabetta, che hanno voluto basare l’attività sul rispetto della persona e la condivisione dei valori, nonché sull’impegno a mantenere un equilibrio armonico con l’ambiente.

Biscotti sostenibili

Le furezze sono biscotti artigianali, leccornie “buone, pulite e giuste” che vengono confezionate in contenitori altrettanto buoni, puliti e giusti. Il premio di Slow Pack – conquistato per la sostenibilità sociale di un progetto quale risultato di un innovativo processo di coinvolgimento del personale – è stato consegnato il 24 ottobre scorso dalla direttrice di SocialFare® Laura Orestano (SocialFare®, ricordiamo, è partner di ricerca di Slow Food).Baci Esotici_Laterale

“Il packaging – spiega Francesca – viene composto in tutte le sue parti da ragazzi con lieve disabilità mentale o fisica, grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale ‘Agespha Onlus’ alla quale viene devoluto parte del ricavato dalla vendita dei biscotti. Tra qualche mese saranno questi stessi ragazzi a produrre i biscotti insieme con noi. Uno dei nostri obiettivi è di introdurre nel nostro organico alcuni di loro”.

Oltre a selezionare accuratamente gli ingredienti dei biscotti, le tre ragazze hanno posto particolare attenzione al packaging, il contenitore: semplice, riutilizzabile nei suoi componenti e interamente riciclabile con molletta salva freschezza in legno, sacchetto e oblò interamente biodegradabili, fascetta in carta ecologica, rafia naturale colorata. “Progettando il packaging – spiegano – abbiamo pensato che nel nostro caso ‘l’abito fa il monaco’ e che debba rispecchiare l’essenza dei prodotti”.

 Il co-working nel settore alimentare

Così, in un equilibrio tra relazioni, la start up ha dato prova di sostenibilità operando scelte consapevoli e responsabili che rafforzano la sua capacità di posizionarsi sul mercato. Scelte anche strategiche, come quella di non aprire subito un proprio spazio produttivo ma di appoggiarsi a un laboratorio artigianale di gelateria per avere il tempo di sperimentarsi, consolidare i risultati finora raggiunti ed esplorare nuove strade.

“La gelateria ci ha prese sotto le sue ali, ci sta aiutando in ogni modo, senza competizione né timori. Per adesso figuriamo come suoi consulenti, ma non appena avremo i certificati dell’Asl lavoreremo con loro in co-working, condividendo lo stesso spazio produttivo”, dice Francesca.

"Le Furezze" premiate al Salone del Gusto e Terra Madre. Laura Orestano di SocialFare® ha consegnato la targa

“Le Furezze” premiate al Salone del Gusto e Terra Madre. Laura Orestano di SocialFare® ha consegnato la targa

Già, perché il co-working nell’alimentare è un altro obiettivo della start up: mettere insieme a lavorare più realtà affini, per sostenere imprese che altrimenti rischierebbero di morire prima ancora di spiccare il volo. “Abbiamo proposto l’idea alla Regione grazie a un tecnologo alimentare che ci segue nella parte legislativa”, continua Francesca. E pare che l’idea sia piaciuta. “Le Furezze” sarà quindi la prima azienda in Veneto – e forse in Italia – a sperimentare questo nuovo modello di business.