Giuliana Gheza è la nostra Service – Social Designer, ruolo chiave nelle attività di Accelerazione di Conoscenza e Impact Design, cuore innovativo di SocialFare.
Nata e cresciuta in Valle Camonica, ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Brescia prima di conseguire un MA (Master of Arts) in Sustainable Design presso la Kingston University di Londra.
In SocialFare si occupa di coordinare, progettare, modellizzare attività, azioni e workshop di co-progettazione, applicando metodologie e strumenti del Design per l’Innovazione Sociale: in questa intervista ci racconta di cosa si tratta!
Ci racconti il percorso che ti ha portata in SocialFare?
Come molti designer della mia età, il mio background è in ambito industriale e di prodotto. Dopo il triennio e la magistrale alla Libera Accademia delle Belle Arti (LABA) di Brescia, dove mi sono specializzata in Design Industriale e poi per l’Innovazione, una serie di esperienze di vita e lavoro all’estero mi ha aiutata a capire di voler intraprendere una strada diversa da quella legata al prodotto. Questo è accaduto in particolare in Cina, dove ho avuto modo di toccare con mano l’impatto della progettazione industriale di oggetti pensati per essere replicati in serie, usati e gettati.
Ho sempre pensato che l’applicazione del design potesse avere un fine diverso, che non si limiti alla produzione di merce ma che possa dare anche un contributo ad un livello più vicino alla comunità e alla società.
Così ho scoperto il mondo dell’Innovazione Sociale e del Design per la Sostenibilità. Decisivo è stato il Master in Sustainable Design presso la Kingston University of London, che mi ha permesso di mettere in discussione molti asset della mia formazione per costruirne di nuovi.
Il primo passo, per me centrale, è stato abbandonare la convinzione che il design debba sempre rispondere ad un brief, ad un problema identificato da altri, in quell’ottica che vede di fatto nel designer un problem solver. Nell’Innovazione Sociale questo punto di partenza cade, perché le sfide più rilevanti per la nostra società sono talmente grandi che non puoi pensare ci sia una soluzione unica né tantomeno definitiva: i problemi vanno affrontati da più lati, da più persone. Questa consapevolezza è fondamentale, anche per liberare chi progetta nel sociale da un senso di frustrazione che potrebbe avere un effetto negativo sul suo lavoro: non sei tu l’eroe che deve trovare a tutti i costi una soluzione, potrai invece sperimentare insieme ad altri, con la possibilità di sbagliare, per portare elementi di discontinuità preziosi rispetto al sistema attuale, verso una società più attenta alla comunità umana e naturale.
E così sono approdata in SocialFare, dove fin dal primo colloquio ho avuto la piacevole sorpresa di parlare con persone che avevano il mio stesso linguaggio, il mio stesso modo di intendere il design, aspetto questo non molto frequente in Italia.
Cosa fa quindi il designer per l’Innovazione Sociale?
Il designer è un progettista. Cosa significa progettare? Dal latino pro, avanti, giacere, gettare. Quindi il punto di partenza è definire, intenzionalmente, cosa si vuole generare e perché è necessario.
Poi c’è il come.
Il designer è un progettista che conosce una metodologia progettuale, sa applicarla e sa farla applicare.
Una metodotologia che prevede delle fasi di lavoro, per ciascuna delle quali ci sono obiettivi e strumenti che aiutano a sviluppare e a far emergere elementi che poi vanno a comporsi in un disegno più complesso, sia esso un servizio, un prodotto o un modello.
Nell’Innovazione Sociale, quindi, è interessante applicare questo metodo per accompagnare e facilitare gruppi di persone a ragionare, ad analizzare un servizio o un progetto o a crearne di nuovi, supportandoli nel far emergere e condividere i propri pensieri e nel trasformarli in elementi tangibili che vadano a concorrere effettivamente all’organizzazione e implementazione di una nuova iniziativa per il territorio.
Il nostro lavoro di accompagnamento di gruppi nella co-progettazione e nello sviluppo di servizi permette quindi di “divergere” collettivamente, dando la possibilità anche al singolo di esprimersi, per poi andare verso una “convergenza” comune. Chiaramente il designer non è da solo in questo compito, non dovrebbe mai esserlo. La sua competenza nel metodo progettuale aiuta a fare ordine fra i pensieri e a divergere nelle idee dove occorre, per poi convergere verso un ordine nuovo e condiviso. Per fare questo nel migliore dei modi dovrebbe sempre essere affiancato da un’équipe multidisciplinare. Allo stesso tempo, nel mondo ideale, ogni équipe di lavoro, in qualunque ambito, dovrebbe a mio parere includere le competenze di un designer.
Come si applicano queste possibilità in SocialFare?
Mi vengono in mente subito due esempi.
Uno è GrandUP! IMPACT Imprese, percorso che abbiamo ideato e sperimentato in tre edizioni dal 2018 ad oggi insieme alla Fondazione CRC. In questo caso le competenze del designer si rivelano in due momenti. Prima di tutto nella fase di progettazione del percorso stesso di accompagnamento, in cui si parte ogni volta dagli obiettivi e da ciò che servirà effettivamente alle persone e ai team che fruiranno del programma. Quali competenze, capacità, strumenti vorremmo che i partecipanti acquisissero? Suddividiamo l’obiettivo in micro-obiettivi e costruiamo il percorso facendo sì che i “moduli” formativi di cui è composto siano in dialogo fra loro. I nostri non sono mai percorsi di formazione standard, cambiano da un’edizione all’altra e anche in base ai team selezionati in quel contesto specifico, cerchiamo di cucirli il più possibile su misura per chi partecipa.
L’altro momento in cui emerge il ruolo del designer è l’accompagnamento di persone che si siedono intorno a un tavolo unite dalla voglia di sviluppare e implementare una progettualità, che potrebbe poi trasformarsi in un’attività informale o imprenditoriale. Questo è il cuore del percorso. Il designer ha il compito di far dialogare queste persone, accompagnandole nell’analizzare il progetto senza cadere nell’impasse da foglio bianco. Il metodo è qui determinante, porta a muoversi in modo più fluido nell’analisi del servizio immaginato e nella comprensione di come strutturarlo e implementarlo.
Un altro esempio molto significativo del nostro lavoro è Disegni Urbani, iniziativa che abbiamo realizzato a Cuneo, anche in questo caso con la Fondazione CRC. L’obiettivo era coinvolgere cittadini di ogni età supportandoli nel confronto a gruppi, per far emergere idee e suggestioni in merito al potenziale uso di uno spazio che doveva essere ristrutturato e rigenerato. Abbiamo creato in quella occasione un percorso breve, di una sola giornata, che ha permesso a persone sconosciute e con percorsi di vita differenti di interagire ed esprimersi, arrivando poi a una convergenza ricca di stimoli interessanti sia per i partecipanti stessi sia per la Fondazione e il territorio (guarda il report, ndr).
Cos’è quindi l’Innovazione Sociale?
La definizione accademica fa riferimento a progetti e iniziative che rispondono a bisogni sociali reali, creando nuove idee o nuove implementazioni di soluzioni già presenti per rispondere a questi bisogni e generando nuove collaborazioni e relazioni, attraverso strumenti di inclusione sociale. È cruciale che non si tratti mai di proposte calate dall’alto. In questo processo di dialogo, confronto, emersione di idee si crea intelligenza collettiva, che porta il territorio ad essere più “capace” di portare soluzioni, in un flusso in cui ogni persona può contribuire.
Si tratta di una definizione e di un obiettivo estremamente ambiziosi: naturalmente calandosi nella realtà tutto “si sporca” un po’, non sempre è così perfetto, come del resto è normale e giusto che sia. Io penso sia importante anche capire che l’Innovazione Sociale non è stata inventata da noi che la proponiamo oggi: è qualcosa che, in varie forme, si fa da sempre. D’altra parte, il fatto di averla definita e strutturata permette di vederla meglio, di riconoscerla e quindi anche di supportarla, creando spazi – fisici e non – e strumenti per facilitare questi processi. Anche il designer riesce così più facilmente a trovare il suo ruolo in questo processo.
Chi fa allora Innovazione Sociale?
La fanno gruppi informali, il mondo delle imprese ad impatto sociale, le pubbliche amministrazioni, e per farlo davvero è necessario che dialoghino fra loro. Le reti di condivisione, le cooperative di comunità, i doposcuola pensati su misura per le esigenze di un territorio, gli orti collettivi, i luoghi di aggregazione e costruzione del senso comune e del pensare e agire collettivo, le ibridazioni fra artigianalità e socialità proattiva, le esperienze di animazione di una piazza, i servizi di gestione e cura collettiva di un bene comune fisico o naturale sono solo alcuni fra tanti esempi di iniziative spesso nate dal basso in risposta ad esigenze sentite dalla collettività.
Le istituzioni pubbliche hanno la possibilità di cogliere sempre più il valore delle progettualità pensate e avviate da gruppi informali, o da imprese del territorio, per fare sì che siano maggiormente accessibili alla comunità, che vadano oltre le capacità del singolo gruppo o le risorse economiche di cui dispone quel singolo progetto. La pubblica amministrazione applica l’Innovazione Sociale quando facilita processi di questo tipo, creando spazi e mettendo a disposizione del territorio risorse perché gli enti che conoscono il contesto abbiano ossigeno per sperimentare insieme servizi e progettualità nuove.
Un buon esempio è il programma europeo UIA (Urban Innovative Actions) che ha l’obiettivo di facilitare i centri urbani e le loro amministrazioni nell’immettere risorse supportando “a cascata” le realtà locali nella generazione di progetti con effetti positivi sulla collettività, partendo proprio dal coinvolgimento attivo della cittadinanza, utilizzando approcci multidisciplinari.
Vedi dei rischi? Come affrontarli?
L’Innovazione Sociale può rischiare di essere un po’ esclusiva, o di rimanere troppo “alta”: succede quando non si sporca troppo sul territorio e resta ben definita su un foglio a livello quasi accademico. Il confronto con la realtà è invece la vera sfida, anche per questo gli addetti ai lavori devono facilitare il coinvolgimento effettivo di tutte le parti coinvolte e non lavorare da soli. Una condizione determinante perché questo avvenga sono i tempi lenti: occorre seguire i cicli “naturali” della gestazione del progetto e della gestione delle comunità, che spesso non collimano con le scadenze tipiche dei bandi, ad esempio.
L’altro rischio che vedo è la ricerca continua e spasmodica di novità, che a volte comporta uno spreco di energie, perché questa tendenza porta a non vedere il buono di quello che si è già fatto, che già c’è. Tempi stretti, velocità e voglia di nuovo assoluto allontanano l’Innovazione Sociale dal suo vero vestito, facendo sì che scimmiotti piuttosto modelli tradizionali. Invece non è l’idea originale che conta: è più importante avere un’idea buona, anche se si trattasse di iterare e rivedere come applicare meglio un’idea pre-esistente, un modello già visto.