Proponiamo un articolo di Mario Calderini, vicedirettore Alta Scuola Politecnica Milano e Torino, pubblicato mercoledì 3 giugno su Repubblica.it
C’era moltissima Torino venerdì al Festival dell’Economia di Trento, quando la Fondazione Vodafone ha presentato i venti finalisti di Think for Social, il concorso per nuove imprese che sviluppano innovazioni e tecnologie a forte impatto sociale. Sensori che traducono il linguaggio dei non udenti in messaggi testuali, tecnologie domotiche per aiutare le persone con disabilità a conquistare l’indipendenza abitativa, smartphone che eseguono elettrocardiogrammi in luoghi remoti e molte altre idee, scelte tra quasi cinquecento in tutta Italia, che proveranno a diventare impresa.
Tra le idee selezionate, oltre il trenta per cento sono idee nate e cresciute a Torino. Un dato sorprendente, ma non troppo. Nelle prime due edizioni della Social Innovation Competition della Commissione Europea la presenza Italiana era stata largamente prevalente tra le idee selezionate e tra queste in particolare quella piemontese e torinese, arricchita dalla presenza ai primissimi posti della prima edizione della torinese Tam Tam Work, e nella seconda edizione di Jobs’r’Us. Ugualmente, il tasso di successo di idee e imprese torinesi nel bando Smart Communities e nel bando Social Innovation del MIUR fu di tale proporzione da far pensare ad un vero genius loci.
Le spiegazioni possono essere diverse e probabilmente valgono tutte insieme: una certa intensità di competenze tecnologiche, la radicata tradizione del volontariato sociale, politiche locali dedicate come Torino Smart City e Torino Social Innovation ed infine, probabilmente, una città in difficoltà nella quale i giovani sono spinti ad ingegnarsi.
Qualunque sia la spiegazione, tutto ciò rappresenta un’opportunità da non perdere, perché l’incontro tra tradizione sociale e capacità tecnologiche è, per una volta concretamente e fuor di retorica, un tratto distintivo sul quale costruire un’ipotesi di sviluppo locale. Un’ipotesi certamente più realistica delle fantasie di Torino capitale prima del design, poi del cinema, poi dello sport con cui siamo stati intrattenuti nell’ultimo decennio.
La sfida è quella di saper intercettare, con una nuova forma di imprenditorialità sociale, le enormi opportunità che stanno all’intersezione tra arretramento del welfare, emergere di nuovi bisogni sociali su scala metropolitana, disponibilità tecnologiche e saperi locali. E’ un’ipotesi sulla quale comincia a svilupparsi un grande dibattito internazionale che la città può cogliere con un certo anticipo, grazie ad un ecosistema già dotato di alcuni ingredienti fondamentali: un sistema della cooperazione vivace e solido, reti di imprenditorialità sociale dinamiche e consolidiate, Piazza dei Mestieri e i Giuseppini del Murialdo per fare due esempi differenti, incubatori di successo, più tradizionali come I3P o orientati al sociale come Socialfare ed anche naturalmente la presenza di due importanti Fondazioni bancarie o di esperienze pionieristiche di finanza sociale come Permicro.
Proprio la capacità di intercettare il crescente mercato di strumenti di finanza di impatto sociale al servizio di nuove forme di imprenditorialità è probabilmente il fattore di innesco decisivo. L’attenzione che operatori specializzati come Oltre Venture o Banca Prossima riservano a Torino, ma anche il fatto che la Young Foundation, epicentro culturale della nuova finanza sociale anglosassone, consideri Torino un laboratorio privilegiato, dimostrano la specialità della nostra città e l’opportunità di fare uno sforzo, anche politico, per far incontrare domanda di nuova imprenditorialità sociale e offerta di strumenti finanziari adeguati.
Molte cose si potrebbero fare per accompagnare questo processo, ma vale la pena ricordarne due, una banale ed un’altra meno. Per la Regione, la programmazione dei fondi strutturali è l’occasione per sperimentare nuovi modelli di finanziamento e procurement all’impresa sociale. Per il Comune, il detonatore delle opportunità per la nuova imprenditorialità sociale è la gestione dei Beni Comuni, siano essi servizi di pubblica utilità o grandi spazi urbani liberi: tra gli interessi finanziari degli immobiliaristi e la pura proprietà pubblica c’è una terza via praticabile, vale la pena sperimentarla.