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Scalabilità, la forza delle buone idee

Perché un’innovazione sociale sia capace di raggiungere l’obiettivo finale di ”cambiamento di sistema”, cioè di un nuovo rapporto tra politiche pubbliche, iniziative private e comunità di pratica, il percorso da compiere si snoda attraverso tappe fondamentali: dall’identificazione di bisogni sociali nascono proposte che si traducono in modelli di inclusione e sviluppo la cui sperimentazione sul territorio va implementata fino ad arrivare alla diffusione dell’idea.

Il trasferimento o riproposta su scala più ampia delle esperienze di innovazione sociale (scalabilità) è un passaggio particolarmente delicato che mette in campo risorse, competenze e relazioni la cui qualità può permettere a piccoli progetti fortemente radicati sul territorio, quindi nati in specifici contesti locali, di estendere il proprio impatto a nuove comunità.

immagine matrioska_scalabilitàLa scalabilità è pertanto un aspetto cruciale cui viene dedicata grande attenzione nella letteratura sulla social innovation. Nel rapporto 2012 “Defining Social Innovation” di TEPSIE (Theoretical, Empirical and Policy Foundations for Social Innovation in Europe) – progetto europeo che elabora la strategia UE per lo sviluppo dell’innovazione sociale – si sottolinea che “l’obiettivo delle realtà con missione sociale è quello di generare il più grande impatto possibile”.

Benché il rapporto evidenzi l’importanza dell’emulazione, cioè il potere di contagio, come strategia per lo sviluppo e diffusione di un’idea, è altrettanto importante puntare alla crescita “verticale” di un’organizzazione grazie al coinvolgimento e attivazione di altri soggetti e attività su più livelli.

Le “api” della social innovation

In un report del 2007 l’organizzazione britannica governativa Nesta, National Endowment for Science Technology and the Arts, affermava che per rendere scalabile l’innovazione sociale sono fondamentali le alleanze e le contaminazioni tra piccole organizzazioni, imprenditori, grandi imprese e istituzioni pubbliche. In “Social Innovation: what it is, why it matters, how it can be accelerated”, Goeff Mulgan (attualmente chief executive di Nesta) paragona i piccoli imprenditori e le start up alle “api” che – mobili, dinamiche, veloci, portatrici di innovazione su piccola scala – ronzano intorno agli alberi dalle solide radici (le grandi istituzioni, con risorse e potere) inducendoli a condividere, introdurre e rendere così scalabili le loro iniziative.

Sul piano pratico, lo scorso anno è stato avviato il progetto europeo BENISI (Building a img 2_scalabilitàEuropean Network of Incubators for Social Innovation), un consorzio trans europeo nato un anno fa per identificare 300 startup innovative tra le più promettenti, ad alto impatto e in grado di generare occupazione nei settori pubblico, privato, terzo settore, impresa e cooperazione sociale. Scopo del progetto – che in Italia coinvolge Impact Hub Milano – è offrire supporto a queste realtà rafforzandole localmente e rendendole scalabili, sia all’interno del proprio Paese che a livello internazionale, creando percorsi di matching con potenziali finanziatori.

Domanda e offerta

Scambio (di know-how, di esperienze, di competenze, di persone), ampliamento delle reti e della governance ed emulazione sono dunque i presupposti per la diffusione a macchia d’olio di una idea e della sua applicazione. A patto che ci sia effettivamente una larga diffusione del bisogno sociale al quale si rivolge il progetto.

Il potenziale di crescita è legato alla capacità di un progetto di rappresentare un prototipo che sia appetibile a partner e sponsor per le possibilità di sviluppo su ampia scala. L’offerta effettiva, che richiede prove di efficacia, efficienza e convenienza economica dell’innovazione, e la domanda, cioè la disponibilità a pagare, sono strettamente correlate.

LibroBiancoE “per far crescere la domanda – rileva il Libro Bianco dell’innovazione sociale scritto da Geoff Mulgan insieme con Robin Murray e Julie Caulier Grice – ci può essere bisogno di una diffusione attraverso l’ascolto, suscitando consapevolezza, sostenendo una causa, e promuovendo il cambiamento. L’ascolto attivo è la chiave percreare domanda per i servizi, in particolare da parte delle pubbliche autorità”.

Il Libro Bianco, raccolta a livello internazionale di pratiche, strategie e strumenti che costituisce una vera e propria guida per progettare, sviluppare e far crescere l’innovazione sociale, sottolinea inoltre come la diffusione di un’idea dipenda spesso anche dalla sua semplicità e dall’eliminazione di ciò che non è essenziale, mentre le idee complesse richiedono più competenze e impiegano più tempo a diffondersi.

Community Catalyst

Concludiamo con un esempio concreto di scalabilità che per SocialFare® ben sintetizza il concetto perché parte dal “locale” per rispondere a un bisogno specifico e poi amplia il proprio raggio di azione riuscendo a operare cambiamenti sistemici a livello di policy.

Community Catalyst (Regno Unito) è  uno dei progetti premiati nel 2013 alla prima edizione dell’European Social Innovation Competition, dedicata alle idee che esplorano nuove strade per aumentare e migliorare l’occupazione in Europa. L’ambito d’impegno del progetto è l’organizzazione di servizi sociali e sanitari su piccola scala e alla portata di tutti, favorendo la creazione di micro imprese in cui si incontrano competenze presenti nelle aziende e nelle comunità di cittadini.Learning-lessons-graphic

Ecco allora che professionisti del settore e gente comune (compresi anziani, disabili e coloro che offrono assistenza familiare)  “confezionano”  insieme, creativamente, piccoli servizi di qualità da vendere sul territorio, garantendo a tutte le persone, ovunque si trovino, la possibilità di accedere a prestazioni di cura e assistenza.

Una rete di realtà imprenditoriali coordinata, gestita e sostenuta  attraverso una piattaforma telematica, con cui Community Catalysts  punta ad ampliare la portata e la qualità dei servizi offerti su piccola scala, avvalendosi di imprese e tutor professionali. In tal modo competenze e talenti di individui e comunità vengono valorizzati e investiti in servizi personalizzati di qualità che hanno il duplice scopo di creare nuovo lavoro e generare benessere.


La sostenibile leggerezza delle dolci “Furezze”

Quando acquistiamo un prodotto difficilmente facciamo attenzione al “contenitore”. Ci chiediamo quanta energia e quante risorse vengono consumate nella realizzazione di imballaggi che finiscono nella pattumiera non appena il “contenuto” è stato liberato? Un alimento, per quanto “buono, pulito e giusto”, può essere ritenuto sostenibile (nelle dimensioni sociale, economica e ambientale) se è confezionato in packaging poco sostenibili?

slowpack-01-1Segnali di cambiamento, di svolta, di un’accresciuta sensibilità e attenzione ad aspetti finora trascurati si registrano però con sempre maggior frequenza. Comportamenti virtuosi si diffondono sulla scia della crisi sistemica in atto, che impone – oltre ai tagli alle spese – una riflessione sui nostri stili di vita e sulla necessità di un consumo più critico. Riflessione che si allarga grazie anche ad eventi in grado di raggiungere un vasto pubblico. Ad esempio “Slow Pack”, il concorso che il Salone del Gusto e Terra Madre dedica ai migliori packaging.

Tra le realtà imprenditoriali italiane e del Sud del mondo che sono state premiate nell’ultima edizione, abbiamo già raccontato l’esperienza di un’impresa indonesiana che confeziona i sali di Bali in imballaggi artigianali di pietra vulcanica locale. Vogliamo adesso soffermarci su “Le Furezze”, una start up nata un anno fa a Verona dall’intraprendenza di Francesca, Chiara ed Elisabetta, che hanno voluto basare l’attività sul rispetto della persona e la condivisione dei valori, nonché sull’impegno a mantenere un equilibrio armonico con l’ambiente.

Biscotti sostenibili

Le furezze sono biscotti artigianali, leccornie “buone, pulite e giuste” che vengono confezionate in contenitori altrettanto buoni, puliti e giusti. Il premio di Slow Pack – conquistato per la sostenibilità sociale di un progetto quale risultato di un innovativo processo di coinvolgimento del personale – è stato consegnato il 24 ottobre scorso dalla direttrice di SocialFare® Laura Orestano (SocialFare®, ricordiamo, è partner di ricerca di Slow Food).Baci Esotici_Laterale

“Il packaging – spiega Francesca – viene composto in tutte le sue parti da ragazzi con lieve disabilità mentale o fisica, grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale ‘Agespha Onlus’ alla quale viene devoluto parte del ricavato dalla vendita dei biscotti. Tra qualche mese saranno questi stessi ragazzi a produrre i biscotti insieme con noi. Uno dei nostri obiettivi è di introdurre nel nostro organico alcuni di loro”.

Oltre a selezionare accuratamente gli ingredienti dei biscotti, le tre ragazze hanno posto particolare attenzione al packaging, il contenitore: semplice, riutilizzabile nei suoi componenti e interamente riciclabile con molletta salva freschezza in legno, sacchetto e oblò interamente biodegradabili, fascetta in carta ecologica, rafia naturale colorata. “Progettando il packaging – spiegano – abbiamo pensato che nel nostro caso ‘l’abito fa il monaco’ e che debba rispecchiare l’essenza dei prodotti”.

 Il co-working nel settore alimentare

Così, in un equilibrio tra relazioni, la start up ha dato prova di sostenibilità operando scelte consapevoli e responsabili che rafforzano la sua capacità di posizionarsi sul mercato. Scelte anche strategiche, come quella di non aprire subito un proprio spazio produttivo ma di appoggiarsi a un laboratorio artigianale di gelateria per avere il tempo di sperimentarsi, consolidare i risultati finora raggiunti ed esplorare nuove strade.

“La gelateria ci ha prese sotto le sue ali, ci sta aiutando in ogni modo, senza competizione né timori. Per adesso figuriamo come suoi consulenti, ma non appena avremo i certificati dell’Asl lavoreremo con loro in co-working, condividendo lo stesso spazio produttivo”, dice Francesca.

"Le Furezze" premiate al Salone del Gusto e Terra Madre. Laura Orestano di SocialFare® ha consegnato la targa

“Le Furezze” premiate al Salone del Gusto e Terra Madre. Laura Orestano di SocialFare® ha consegnato la targa

Già, perché il co-working nell’alimentare è un altro obiettivo della start up: mettere insieme a lavorare più realtà affini, per sostenere imprese che altrimenti rischierebbero di morire prima ancora di spiccare il volo. “Abbiamo proposto l’idea alla Regione grazie a un tecnologo alimentare che ci segue nella parte legislativa”, continua Francesca. E pare che l’idea sia piaciuta. “Le Furezze” sarà quindi la prima azienda in Veneto – e forse in Italia – a sperimentare questo nuovo modello di business.

 

Impatto sociale: perché è importante misurarlo

In un contesto di crisi sistemica che spinge alla ricerca di soluzioni coraggiose e approcci innovativi, gli “investimenti ad impatto sociale” sono al centro di un dibattito internazionale sempre più vivace.

Il bisogno di rendere più efficace ed efficiente la spesa pubblica e di attrarre risorse private per innescare processi di sviluppo è alla base di molteplici tavoli di lavoro, studi e azioni finalizzati a individuare procedimenti di misurazione dell’impatto sociale di un intervento. Misurazione che consenta di quantificare e qualificare il cambiamento positivo generato e “certifichi” la capacità di un progetto di essere sostenibile e replicabile e quindi di attirare capitali, creando anche valore economico.

Donazioni-150x100In Italia (dove più che altrove la misurazione dell’impatto sociale non ha ancora basi solide e condivise) di qui al 2020 potrebbero essere mobilitati circa 30 miliardi di euro per gli investimenti ad impatto sociale. E’ quanto emerge dal Rapporto italiano della Social Impact Investment Task Force istituita in ambito G8 un anno fa per promuovere il mercato dell’investimento ad alto impatto sociale.

Verso una nuova economia

Il rapporto, intitolato “La Finanza che include: gli investimenti ad impatto sociale per una nuova economia”, è stato presentato un mese fa ed è frutto del lavoro di circa 100 esperti in rappresentanza di cooperative sociali e fondazioni bancarie, imprese sociali e investitori privati, non profit e intermediari finanziari, investitori istituzionali, istituti di credito, fondazioni filantropiche d’impresa e università, che insieme hanno individuato 40 proposte da rivolgere al Governo.

La “diffusione degli strumenti della misurazione dell’impatto sia tra le imprese sociali che tra gli erogatori di risorse pubbliche e private” è una delle proposte avanzate, in linea con il lavoro della Task Force (di cui l’Italia fa parte insieme con Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti) che si è assunta anche il compito di sviluppare un approccio standardizzato in grado di misurate l’impatto sociale. La prossima riunione della Task Force – che un mese fa ha diffuso un rapporto internazionale risultato di un anno di lavoro – si svolgerà a Roma il 28 e 29 ottobre prossimi.

La necessità di disporre di metodi nuovi per misurare la sostenibilità e il benessere e

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riuscire così a far fronte alle sfide sociali è più che mai avvertita in un’Europa colpita dalla crisi. Ma l’acquisizione di preziose informazioni utili per valutare gli effetti dell’idea innovativa e aumentarne efficacia ed efficienza non è un lavoro semplice. Gli sforzi per dimostrare il collegamento tra l’attività realizzata e l’effetto, traducendo l’attività in cifre, possono comportare dei rischi e non ottenere risultati adeguati.

Cosa misurare?

Circa un anno fa il Comitato economico e sociale europeo elaborava un parere d’iniziativa illustrando la prospettiva delle imprese sociali nello sviluppo di un metodo di misurazione dell’impatto sociale. Parere che bacchettava ed esortava la Commissione europea a dedicare più tempo ad un esame approfondito dell’argomento in quanto “la misurazione dell’impatto sociale è una questione non solo importante, ma addirittura cruciale per ricostruire un‘Europa a dimensione sociale”. Di qui la necessità di promuovere una raccolta dati, di elaborare un quadro che riunisca i principi su “cosa misurare invece di cercare di definire come misurare l’impatto sociale”.

Ecco allora l’invito ad essere prudenti, considerato che “in numerosi Stati membri la conoscenza dell’imprenditoria e dell’economia sociali e il riconoscimento del loro apporto sono quasi inesistenti. Aprire il dibattito nella prospettiva dell’impatto sociale piuttosto che cercare di promuovere un ambiente propizio allo sviluppo di imprese sociali può quindi rivelarsi controproducente per la crescita del settore”.

Sensibilizzare sui principi più diffusi in questo campo invece di elaborare e raccomandare l’applicazione di un solo metodo specifico è dunque la direzione indicata dal Comitato economico e sociale europeo, che sottolinea: “Un tratto comune a queste iniziative risiede nel fatto che nascono ‘dal basso’ e vengono progettate per inquadrare i mutamenti sociali sulla base di necessità effettive e di attività concrete. Qualsiasi metodo di misurazione va elaborato a partire dai risultati principali ottenuti dall’impresa sociale, deve favorirne le attività, essere proporzionato e non deve ostacolare l’innovazione sociale. Il metodo dovrebbe prefiggersi di trovare un equilibrio tra dati qualitativi e quantitativi, nella consapevolezza che la ‘narrazione’ è centrale per misurare il successo… “.

Un esempio: SocialFare® partner di Slow Food

E’ infatti soprattutto con la narrazione –  raccolta di “storie” ricche di informazioni viste Proposta Grafica_SOSTENIBILITà SOCIALE_Parete Esterna.pdfdalla prospettiva dei beneficiari –  che è possibile valutare il “valore aggiunto” delle attività di un’impresa sociale. Ed è anche alla narrazione che ricorrerà SocialFare® nel lavoro di ricerca che la vede partner del Salone del Gusto e Terra Madre, di cui nelle prossime tre edizioni verrà indagata la sostenibilità sociale, la capacità di innescare e generare cambiamento sul territorio in un equilibrio tra relazioni, comportamenti e azioni.

Indicatori e metriche sono ancora in fase di test. Possiamo però anticipare che SocialFare® procederà per tappe, lungo un percorso che partirà da un’analisi (area d’indagine) dell’ecosistema del Salone, inteso come luogo antropologico di azioni e relazioni in cui il cibo è un attivatore di valore sociale.

Social Outcomes vs.Social Impact by USCREATES (UK)

Social Outcomes vs.Social Impact by USCREATES (UK)

L’indagine  delle attività, delle relazioni, delle sfide e degli obiettivi  porterà a definire gli effetti quantitativi dell’oggetto dell’analisi (output), cioè i dati misurabili, fino alla valutazione della ricaduta a breve, medio e lungo termine sul territorio (outcome): come il Salone è riuscito a modificare i comportamenti al di fuori della sede fisica in cui si svolge, quali effetti sociali ha prodotto. Così verrà dunque valutato l’impatto, che esprime in quale misura un effetto dipende dall’oggetto dell’analisi. Avremo modo di approfondire.

 

Innovazione sociale: dalla pratica alla teoria

E’ ormai centrale nell’agenda politica di mezzo mondo, ma ancora non è chiaro a cosa ci si riferisca esattamente. Si abusa del termine senza che vi sia una definizione precisa, esaustiva  e universalmente accettata. Banalizzazione, retorica, strumentalizzazione sono i rischi che si corrono a parlarne impropriamente. Perché l’”innovazione sociale” – o social innovation – è prima di tutto una pratica, dalla cui osservazione si sta cercando di ricavare una teoria.

Ed è una pratica non nuova: le sue caratteristiche, che da 15 anni circa si tenta di codificare e tradurre in un linguaggio e in una progettualità non approssimativi, le ritroviamo in interventi molto meno recenti. Allora non si parlava di “innovazione sociale”, non esistevano la tecnologia informatica e i social network, ma gli obiettivi erano gli stessi: attivare cambiamenti in grado di migliorare il benessere della società, a livello locale o globale.

Quando un’innovazione è “social”?

Lslide-02’obiettivo del Bene Comune segna la differenza tra queste pratiche sociali e tutte le altre “innovazioni”, ognuna delle quali ha sì un impatto sociale ma non necessariamente “good”, buono. Ecco la definizione – contenuta nella “Guide to Social Innovation” realizzata dalla Commissione Europea” (febbraio 2013) – che secondo SocialFare esprime meglio il concetto:

“L’’innovazione sociale può definirsi come lo sviluppo e l’implementazione di nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che incontrano bisogni sociali, creano nuove relazioni sociali e collaborazioni. L’innovazione sociale porta nuove risposte ad impellenti bisogni che coinvolgono processi di interazione sociale. Le innovazioni sociali sono sociali solo se utilizzano strumenti e perseguono fini sociali. Le innovazioni sociali aggiungono valore alla società e aumentano la capacità di azione individuale e di comunità”.

Una definizione che nasce dal bisogno di chiarire cos’è – e cosa non è – una pratica ormai prioritaria nell’elaborazione di politiche volte a un’economia sostenibile e inclusiva, elemento centrale della Strategia Europa 2020 che per rilanciare l’economia ha fissato ambiziosi obiettivi in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale, energia/clima.

Tante definizioni

Nel corso degli ultimi anni, in particolare, il tentativo di codificare la pratica della social innovation per imporla con più efficacia all’attenzione politica si è tradotto in numerosi studi che hanno contribuito nel loro insieme a “spingere” sempre più in alto il concetto, anche se – come si è detto – non si è ancora pervenuti a una definizione unica e continuano ad esserci confusione e ambiguità. Interessante, in proposito, uno studio pubblicato nel 2014 da Tara Anderson, Andrew Curtis e Claudia Wittig, allievi del corso universitario “Master of arts in social innovation” attivato dalla Danube University Krems in collaborazione con il Centro per l’innovazione sociale di Vienna.

Lo studio , intitolato “Definition and Theory in Social Innovation”, analizza le varie teorie fino ad approdare alla proposta di una nuova definizione che in poche parole concentra il significato di “innovazione sociale” quale emerge dal dibattito internazionale in corso. Un dibattito in cui “equality”, “justice” e “empowerment” vengono individuati come obiettivi finali – l’impatto – dei cambiamenti sociali promossi, impossibili da centrare senza la rete (co-creation e co-design). Quella rete di cui la social innovation ha bisogno per ottenere maggiori benefici in termini di replicabilità e scalabilità (replicability e scaling up). Tutti termini su cui ci soffermeremo prossimamente nel nostro glossario.immagine blog_glossario social innovation

Il dialogo con le istituzioni

Le molteplici definizioni finora coniate (ognuna delle quali individua obiettivi specifici in base al contesto sociale di riferimento) arricchiscono e contribuiscono a creare una “teoria” che sia capace di aiutare la pratica, facilitando il dialogo e spingendo le istituzioni a indirizzare maggiori risorse all’innovazione sociale.

La social innovation incontra, infatti, non poche resistenze nel suo tentativo di affermarsi come unica possibile alternativa alle soluzioni, orientate all’assistenzialismo, proposte da un welfare tradizionale ormai incapace (perché privo di adeguate risorse) di soddisfare bisogni sempre più pressanti. Di qui l’esigenza di “rigore scientifico”, di ordine e chiarezza in una pratica che sta dimostrando di essere in grado di offrire soluzioni più efficaci, efficienti e sostenibili ai problemi sociali, di far crescere e responsabilizzare individui e gruppi, di accrescere la capacità (capability) della società di agire…

La Banca dei poveri

Un esempio concreto dove sono presenti tutti gli aspetti dell’innovazione sociale secondo le definizioni attuali: dalla Fondazione della Banca dei poveri (Grameen Bank) in Bangladesh ad opera di Muhammad Yunus, nel 1976, il microcredito si è rivelato un efficace strumento di lotta alla povertà. La rivoluzione introdotta è, però, più una riscoperta che un’invenzione: le radici sono molto più antiche e affondano in Italia, 600 anni fa, con i Monti di Pietà. Un’esperienza plurisecolare che Yunus ha adattato alle caratteristiche specifiche del suo Paese, dove gran parte della popolazione vive nelle campagne.

La Grameen Bank (Banca rurale o di villaggio) è stata fonte di ispirazione e di modelli per le numerose istituzioni del settore del microcredito che sono nate in ogni parte del mondo. Al centro, la creazione di reti di fiducia e di sostegno, la consapevolezza che i sussidi ai poveri non spingono a tirare fuori il talento o la creatività ma fanno sentire la gente passiva, esclusa da qualsiasi progetto di riscatto, perciò incapace di migliorare.

immagine blog_grameen bank_yunus“Il microcredito, invece, “permette ai poveri e agli scalzi di accedere a una opportunità che di solito è esclusivo appannaggio dei ricchi – spiega Yunus – Accade così che quegli aspetti della società che sembravano rigidi, fissi e inamovibili comincino a diventare più fluidi, e attraverso lo sviluppo economico le persone si affranchino da tutto un insieme di ingiunzioni e regole”.

L’idea del microcredito è applicabile ovunque, per quanto il modello vada adeguato e calibrato a caratteristiche diverse. Le molteplici esperienze hanno dimostrato che dare credito ai microimprenditori poveri, in particolare alle donne, è possibile ed economicamente sostenibile, attraverso procedure e modalità che valorizzano l’imprenditorialità e le reti sociali locali.

E’ fondamentale, però, che chi eroga i prestiti rivolga sufficiente attenzione all’accompagnamento, al rispetto, all’acquisizione delle competenze necessarie e, soprattutto, alla costruzione di fiducia e senso di responsabilità. Ecco il valore aggiunto del microcredito: non si limita a finanziare, ma rigenera reti di fiducia. E la fiducia genera reciprocità.

FattiFungo!, non si scarta niente

Ludovico Allasio, Alessandro Balbo, Veronica Gallio, Lorena Mingrone, Dario Toso: sono designer con il comune interesse per la progettazione ecocompatibile. Nel marzo 2013 hanno fondato a Torino l’associazione di promozione sociale e culturale  “Officine sistemiche” , ma già dal 2011 uniscono le forze per “costruire” qualcosa al di fuori dell’ambito universitario, dedicandosi alla concretezza della ricerca applicata.

Team_OSLa collaborazione col Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino si è così evoluta in un percorso indipendente dove l’associazione sta sperimentando sul campo un nuovo modo di fare design, all’insegna delle relazioni tra sistemi diversi e delle connessioni tra realtà eterogenee.

SocialFare li ha scoperti nel 2013, dopo aver lanciato l’Open Call “Fai centro” con cui ha coinvolto giovani fino a 35 anni di età nella creazione di un progetto che identificasse e rappresentasse aspetti dell’innovazione sociale. I 5 designer hanno vinto il bando con “LiberaTutti”, un concept, un’idea per consegnare il quartiere (qualunque quartiere) a chi lo vive, per rendere i cittadini conquistatori dei propri spazi semplicemente “votando” con il loro passaggio strade, vie, percorsi di loro gradimento. L’idea andrà concretizzata, e per questo Officine sistemiche si avvarrà della consulenza progettuale di SocialFare per quanto riguarda gli aspetti di social innovation. Ci ritorneremo.

Adesso, però, vogliamo raccontare un’altra storia, un altro progetto di Officine sistemiche: “FattiFungo!”. Progetto che vede il gruppo all’opera nei boschi della Valle di Susa, alle porte di Torino, intenti a raccogliere scarti verdi (fogliame, sfalci, cellulosa) da miscelare ai fondi di caffè per ottenere terreno fertile in cui far crescere i funghi. Ma cosa c’entra tutto questo col design sistemico? E cos’è il design sistemico? Li abbiamo intervistati.FattiFungo_infografica

Alla vostra associazione avete dato il nome di “Officine sistemiche”. Perché?

“Officine” perché tutto parte da qualcosa di concreto; richiama i valori della bottega artigianale, della cultura materiale, del lavoro manuale. L’aggettivo “sistemiche” si riferisce al concetto di design di sistemi secondo cui, come in natura, durante e alla fine di un processo produttivo non ci sono scarti. Ciò che siamo abituati a definire “scarto” in realtà è una risorsa utilizzabile.

Si lavora come un ecosistema fatto di collegamenti. Se alla fine di un processo non si ha la possibilità di utilizzare una risorsa da esso derivata, ci si mette in relazione con altri soggetti che possano utilizzare quella risorsa. Questa relazione crea rete. Più reti creano più sistemi. E’ chiaro che non si tratta di raccolta differenziata, che presuppone ci sia uno scarto.

E che ruolo gioca il designer in tutto ciò?

La nuova figura di designer ha una responsabilità sociale in quello che fa, crea valore aggiunto. Le scelte che compie all’inizio di un processo sono determinanti. E’ una figura trasversale che non fa solo progettazione, non si limita ai processi industriali, ma conosce bene la materia e lavora perché non ci siano scarti. Si interfaccia con altre realtà, altre competenze, condividendo saperi per realizzare un prodotto che risponda a bisogni che emergono da un’analisi del territorio e della società. E analizzando il territorio scopre che ci sono risorse non valorizzate.

E così avete deciso di coltivare funghi utilizzando risorse non valorizzate…

FattiFungo_workshop2“FattiFungo” nasce da un lavoro di ricerca sui fondi di caffè avviato in università in collaborazione con la Lavazza, per capire che utilizzo si potesse farne. Abbiamo approfondito le sperimentazioni, studiato come, dove e perché crescono i funghi e cercato di individuare le risorse disponibili sul territorio piemontese per la realizzazione del progetto. Abbiamo capito che i fondi di caffè vanno associati ad altri “scarti” verdi, disponibili in abbondanza tra i castagneti del Piemonte. La Valle di Susa è ricca di castagneti. Di solito le foglie che cadono vengono bruciate, invece l’approccio sistemico prevede sì di rimuoverle dal bosco per ripulirlo ma non di bruciarle, utilizzandole in altro modo.

Quindi avevate da una parte i fondi di caffè e dall’altra foglie secche…

Queste due risorse insieme creano il substrato per far nascere i funghi. Un fungo in particolare: il pleurotus, una delle specie più coltivate e conosciute nel mondo. Ed è ottimo. Abbiamo anche fatto una prova culinaria: abbiamo chiesto ad un agriturismo della zona di cucinare separatamente il pleurotus prodotto da noi e quello acquistato nei supermercati, senza che noi sapessimo quale stavamo mangiando. Il nostro pleurotus ha vinto palesemente.FattiFungo_piatti

Dove lo avete coltivato?

In una cantina di Giaglione, sufficientemente umida. La proprietaria ha un castagneto, le foglie le abbiamo raccolte lì. Abbiamo recuperato i fondi di caffè dai bar della zona, abbiamo tagliuzzato le foglie per velocizzare il processo e poi le abbiamo bollite per capire se era necessaria la sterilizzazione. Sì, era necessaria. La sperimentazione è durata un anno. Nel substrato abbiamo aggiunto il micelio, l’apparato vegetativo del fungo.

Qual è l’obiettivo del progetto?

Divulgare la metodologia. Il nostro obiettivo non è vendere funghi, ma sensibilizzare sul fatto che non esistono scarti. E poi vorremmo promuovere una coltivazione diffusa sul territorio, per creare un prodotto del territorio, per aggiungere al territorio identità e ricchezza. Non sono necessari grandi investimenti. In valle ci sono tante cantine da sfruttare per la coltivazione.

Avete anche preparato un minikit per coltivare i funghi in casa…

FattiFungo_KitSi tratta di un sacchetto diviso in 3 parti: uno contiene il micelio, un altro gli scarti legnosi e il terzo, vuoto, va riempito coi fondi di caffè. Occorre tenerlo al buio per una settimana e poi spostarlo alla luce. Adesso usiamo il minikit a scopo promozionale, in occasione di fiere ed eventi.

Quest’anno avete realizzato un altro progetto innovativo: “DoubleCLICK”. Di cosa si tratta?

E’ nato dall’esigenza di stampare su materiale non convenzionale di dimensioni non adatte a una stampante tradizionale. Il sistema si compone di 2 mouse collegati a un pennarello e a supporti tecnologici. Il computer visualizza l’immagine da stampare, muovendo il mouse il pennarello disegna dove passa il puntatore. Il pennarello sa cosa deve fare, tu lo accompagni sul foglio. Con DoubleCLICK  ogni disegno è unico e originale in base ai movimenti della persona che lo esegue.DoubleCLICK

Il progetto “DoubleCLICK” sarà presente a Roma dal 3 al 5 ottobre nell’ambito dell’evento “Maker Faire” , seconda edizione europea della mostra dedicata agli inventori del nuovo millennio in programma all’Auditorium Parco della Musica.  Occasione per toccare con mano le invenzioni più innovative quali robot, stampanti 3D, vestiti intelligenti, elettronica open source e oggetti di design ad alta tecnologia. La manifestazione – promossa dalla Camera di Commercio di Roma e curata  da Massimo Banzi, cofondatore di Arduino, e Riccardo Luna – ospiterà 500 espositori, workshop, educational ed eventi interattivi.

“Social Renaissance”: ampia partecipazione e tanti nuovi imput

La volontà di creare per la prima volta in Italia un’occasione di confronto internazionale sulla social innovation si è tradotta, giovedì 26 giugno a Torino presso il teatro Juvarra, in una giornata particolarmente ricca di contributi e di imput. Innovatori sociali provenienti da tutto il mondo si sono alternati in dense sessioni di lavoro da cui è emersa una realtà in fermento che sta costruendo reti che sappiano affrontare le sfide poste dalla crescente disuguaglianza sociale. Una rete di attori pubblici e privati che a livello globale promuovono lo sviluppo di modelli di economia sostenibile e inclusiva.

slideshow_Social-RenaissanceNon a caso la conferenza “Social Renaissance” – il cui titolo definisce un processo volto a riportare al centro delle decisioni politiche le “periferie sociali” – si è svolta a Torino, dove la ricerca di soluzioni innovative per rispondere ai bisogni emergenti ha una lunga tradizione. E non a caso gli spazi che l’hanno ospitata sono quelli del Teatro Juvarra, presso il complesso dell’Artigianelli: “quartier generale” dell’Opera Torinese del Murialdo (che porta avanti l’attività missionaria del santo sociale Leonardo Murialdo a favore di minori e giovani in difficoltà) e dal 2012 anche sede di SocialFare, che insieme con TOP-IX e Torino Social Innovation ha organizzato l’evento. A don Danilo Magni, dunque, il compito di fare gli onori di casa in un teatro destinato a diventare cantiere in progress di cultura e innovazione sociale.

Oltre 30 speakers in rappresentanza di istituzioni, fondazioni e università locali, nazionali, europei e americani hanno raccontato la propria esperienza, tutti spinti dal bisogno di confrontarsi su significato, concetti e pratiche dell’innovazione sociale. Attraverso esempi concreti si è parlato di scalabilità, sostenibilità, partecipazione e cittadinanza attiva, responsabilità, big data, trasversalità, resilienza, imprenditorialità… Della necessità, di fronte alle sfide sociali, di una innovazione che sappia rompere i vecchi schemi, fare incontrare impresa e non profit, convogliare le diversità e spingerle – nel rispetto di ognuna – verso un nuovo modello di sviluppo.

Alcuni esempi. In Canada l’innovazione sociale è ormai una priorità del Governo, mentre in Portogallo il Banco de Inovacao Social sta portando avanti un programma che prevede un cambiamento sistemico, affrontando i problemi alla radice: cioè cominciando già nelle scuole a creare un nuovo atteggiamento di cittadinanza affinché le persone si convincano di poter cambiare le cose. A New York il Public Policy Lab aiuta i cittadini a capirci qualcosa su come vengono assegnate le case popolari e a scegliere in modo consapevole e informato a quale istituto scolastico superiore (tra i 700 esistenti) iscrivere i figli.

E poi, a Baltimora, il sostegno da parte del centro Social Innovation Lab alla nascita di aziende con buone idee da “vendere”, così come a Torino il Comune sostiene la nascita di imprese sociali mettendo a disposizione un insieme di strategie e strumenti attraverso il programma “FaciliTo giovani e innovazione sociale”. Ancora, per restare nel capoluogo piemontese, il Piano “Torino metropoli 2025” vede l’associazione “Torino Internazionale” e il progetto “Torino strategica” impegnati o costituire “visioni, strategie e azioni che promuovono l’identità e lo sviluppo dell’area metropolitana torinese mobilitando tutti gli attori locali”. SR_Illustration

Queste e tante altre esperienze sono state raccontate alla conferenza, che ha visto un’ampia partecipazione di addetti ai lavori, soprattutto giovani. L’innovazione sociale si è chiaramente delineata come un processo sociale, economico, politico e tecnologico in grado di distruggere vecchie barriere. Un processo in cui l’universo italiano delle cooperative sociali e del non profit in generale giocano un ruolo fondamentale per la loro consolidata capacità di intercettare i bisogni e realizzare progetti non standardizzati. Come ha sottolineato Mauro Busa dell’Alleanza cooperative italiane Piemonte, “le cooperative possono fare innovazione sociale, ma sarebbe auspicabile una maggiore chiarezza nelle metodologie. Il concetto non è così immediato e intuitivo”.

Per essere sostenibile la social innovation ha anche bisogno di risorse finanziarie da attingere a più fonti e con nuove modalità, cambiando il sistema delle regole attuali e individuando nuovi modelli di ingaggio. “I progetti richiedono interventi filantropici, capacità di politica pubblica, energie di mercato e capacità di far cooperare mondi finora distinti”, ha sottolineato Piero Gastaldo della Compagnia di San Paolo.

L’innovazione sociale interpella dunque fondazioni e banche, nell’ambito di un nuovo assetto collaborativo tra diversi soggetti. L’esperienza di Banca Prossima (la banca del Gruppo Intesa San Paolo dedicata al Terzo Settore) rappresenta un esperimento di sostenibilità finanziaria dei progetti realizzati dal Terzo settore, al quale vengono riconosciute caratteristiche proprie ben lontane dalla logica del “for profit”. “I servizi del for profit sono contingentati, mirati, chirurgici – ha detto Marco Morganti – Il bene collettivo non è il loro obiettivo e spesso, quando intervengono nel campo socio sanitario assistenziale, ne escono con le ossa rotta. Alla fine il gioco non è sostenibile”.

Per Banca Prossima, dunque, il criterio di efficienza non è così determinante per la concessione di un prestito: “L’efficienza è sì importante, ma non deve andare contro gli obiettivi sociali di un’organizzazione”, ha continuato Morganti. Più importanti sono invece la fiducia e la rete comunitaria che sostiene il progetto, a garanzia della sua riuscita.

SocialFare ha annunciato durante la conferenza la propria partnership con Young Foundation UK ed esplicitato i soggetti che già si stanno aggregando a livello regionale e nazionale alla piattaforma aperta SocialFare per costruire insieme conoscenza ed imprenditorialità sociali: Rinascimenti Sociali, appunto.

Progettista sociale: ecco un nuovo mestiere. A Torino 20 borse di studio per impararlo

Come già annunciato su questo blog la scorsa settimana, giovedì 12 giugno avrà inizio un ciclo di incontri organizzato dall’Accademia di Progettazione Sociale Maurizio Maggiora  in collaborazione con SocialFare. Gli appuntamenti, gratuiti, sono rivolti a giovani interessati a conoscere i processi per realizzare progetti sociali sostenibili.

Slogan-finale_v3-11-212x300Si tratta di seminari tematici introduttivi, una base di partenza per chi – dopo un “assaggio” – maturasse un reale interesse per questa professione. Perché di professione si tratta, e compito dell’Accademia è proprio quello di insegnare questo mestiere. Dopo aver partecipato agli incontri, aperti a tutti purché di età compresa tra i 18 e i 35 anni, a luglio gli interessati potranno essere selezionati per l’assegnazione di 5 borse di studio che consentiranno di accedere al corso base previsto da ottobre 2014 ad aprile 2015: 11 appuntamenti cui parteciperanno 20 ragazzi, tutti borsisti grazie al sostegno dell’associazione ProSpera, del Gruppo 2 del Distretto 2031 del Rotary Club e del Rotary Club Torino Sud Est.

Per capire meglio di cosa si tratta e come sta mutando il quadro di riferimento, rivolgiamo alcune domande a Federico Maggiora, fondatore e presidente dell’Accademia, da quasi 25 anni impegnato nel sociale e, soprattutto, nella progettazione.

Quando e da quale bisogno nasce l’Accademia?

E’ nata ufficialmente il 7 gennaio 2013, dedicata a mio padre Maurizio Maggiora a 20 anni dalla sua scomparsa. Il progetto, però, risale a due anni e mezzo fa: un lungo periodo di incubazione per capire se ci fosse bisogno di una realtà del genere e per definire il modello d’intervento in base alle evoluzioni della figura del progettista sociale.logo

E avete concluso che effettivamente ce n’è bisogno…

Sì, e dopo aver studiato e analizzato il terzo settore abbiamo capito che tipo di approccio dare al progetto. Ce n’è bisogno perché la figura del progettista cambia. Io faccio parte dell’Associazione italiana progettisti sociali, nata nel 2009, e ho potuto rilevare come l’approccio classico – che era quello di partecipare ai bandi con un progetto scritto per ottenere i fondi – sia ormai superato: oggi occorrono anche capacità realizzative, manageriali, non basta portare i soldi a casa. Si sta andando, ed è questa la nostra scommessa, verso una figura professionale molto più trasversale, si cercano figure che abbiano una visione di processo e contesto (mercato, relazione, rete), che sappiano dare valore al progetto, non solo dal punto di vista economico; ci sono, infatti, progetti a basso costo ma dal valore inestimabile.

E quando si parla di “sociale” non si parla solo di terzo settore: anche l’azienda ha necessità di queste figure con capacità di visione e metodo. Si tratta insomma di figure ricercate anche dai contesti aziendali.

Quali sono allora i vostri obiettivi?

Offrire visione e metodo, cambiare il terzo settore italiano e dare ai giovani un’opportunità di lavoro scommettendo su nuovi mestieri.

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Quali caratteristiche deve avere un progettista sociale?

Sicuramente capacità creativa e di visione, saper vedere le situazioni come opportunità, con un punto di vista “altro”. Determinazione nel perseguire l’obiettivo, capacità di lettura del rischio, grande capacità comunicativa e di fare squadra. Curiosità, motivazione e anche capacità commerciale, perché c’è tutto un pezzo che riguarda la vendita del progetto.

Cosa si impara dunque all’Accademia?

Visione e metodo, innanzi tutto. Lo strumento è una diretta conseguenza del metodo e ci interessa far capire il “perché” lo si usa più che il “come”. Ci definiamo laboratorio, non centro formativo: il mestiere del progettista si impara sul campo, accanto a persone che hanno esperienza. Qui si fa una didattica molto pratica e poco teorica. “Saper fare” sono le parole chiave della metodologia dell’Accademia.

Al nostro primo corso base abbiamo avuto come partecipanti ragazzi provenienti dal mondo del volontariato, con una cultura prevalentemente umanistica e molto legata al concetto di “bando”: per loro la progettazione sociale si limitava infatti alla partecipazione a un bando. Abbiamo cercato di educare loro e gli enti che li hanno segnalati a ragionare in un’ottica di ideazione, pianificazione, organizzazione e coordinamento progettuale: dopo aver individuato bisogni e obiettivi, occorre definire la sua sostenibilità (come e per quanto tempo è in grado di stare in piedi) e i processi per realizzarlo, con quale team, con quali partner, con quali fondi…

Da chi sono segnalati i partecipanti? Come li reclutate?

I giovani partecipano ai nostri corsi grazie a borse di studio attivate in partnership con reti pubbliche e private, laiche e religiose,  con le quali definiamo l’iter di selezione dei potenziali progettisti e individuiamo i progetti sui quali incentrare la didattica.

Il corso base che si svolgerà da ottobre 2014 ad aprile 2015 sarà aperto a giovani provenienti dalla cooperazione sociale e dal mondo religioso: i partecipanti saranno divisi in piccoli gruppi, seguiti da docenti e tutor specializzati in project management e nella gestione di progetti sociali.

Nel primo corso base organizzato dall’Accademia si è lavorato su progetti elaborati dalle stesse organizzazioni che vi hanno segnalato i giovani. Anche nel prossimo sarà così?

No, nel corso che partirà in ottobre lavoreremo su idee, con l’obiettivo di farle evolvere in progetti realizzabili e sostenibili. L’anno scorso abbiamo riscontrato che non tutti i progetti proposti erano “progetti”, alcuni erano poco sostenibili mentre altri erano già in fase avanzata di realizzazione e non potevamo stravolgerli.

Recentemente avete partecipato al Salone del libro…

Un’altra nostra scommessa è di riuscire a parlare di progettazione sociale a tutti e non solo agli addetti ai lavori, far capire che progettazione sociale non vuol dire solo terzo settore, carità o beneficenza. Siamo stati al Salone con Primaradio, con la quale abbiamo realizzato il programma “Diogene, una lanterna per progettare il futuro”, co-condotto tra l’altro  anche da una ragazza che ha partecipato al corso base dell’anno scorso. In 16 puntate (il mercoledì dalle 12 alle 13 con replica il sabato dalle 17 alle 18) raccontiamo, con l’aiuto di esperti, la progettazione sociale, spieghiamo cos’è, quali sono i vari step.

L’Accademia ha anche un laboratorio “Mentoring”: di che si tratta?

E’ dedicato ai giovani progettisti con maggiore esperienza. Attraverso l’accompagnamento del mentor realizzano il progetto affidato, apprendendo tecniche e metodi di progettazione che accrescono la quantità di strumenti in loro possesso. Grazie a questi laboratori costruiamo, sotto la guida di un project manager aziendale, la “cassetta degli attrezzi” del giovane progettista.

E nel 2015, accanto al corso base e al laboratorio “Mentoring”, vorremmo avviare un percorso finalizzato a costruire un modello di sviluppo per il progettista.

“Alla giornata”: il lavoro e la legalità crescono nei campi

Cerignola, provincia di Foggia: nelle campagne pugliesi nasce un’idea la cui realizzazione si propone di contrastare il lavoro nero e lo sfruttamento della manodopera, soprattutto straniera. Così due fratelli e alcuni amici informatici hanno unito le forze per dare corpo a un progetto timidamente presentato alla seconda edizione del Premio europeo di innovazione sociale. Erano convinti che la loro “pensata” non sarebbe stata nemmeno presa in considerazione, non avendo alle spalle né enti importanti, né università, né fondazioni ecc. E invece alla Commissione europea l’idea è piaciuta, tanto che l’ha inserita tra le 30 semifinaliste selezionate sulle oltre 1200 provenienti da tutta Europa.

logo“Alla giornata” – è il nome del progetto – non si è piazzato tra i 10 finalisti annunciati lo scorso 15 aprile, ma l’attenzione che ha ricevuto oltralpe ha comunque reso più salda la determinazione dei giovani amici a procedere. Intervistiamo Nico Campese, uno degli ideatori, laureato in marketing e con un forte interesse per la social innovation.

La vostra idea è nata per rispondere a quale problema?

Sono due i problemi reali che abbiamo riscontrato nelle nostre campagne: la difficoltà per gli imprenditori agricoli di mettere insieme in tempi rapidi squadre di lavoratori che prestino la loro opera nei periodi di raccolta e la tendenza a pagare in nero, soprattutto da parte dei piccoli coltivatori.

Il nostro progetto punta a mettere insieme in base alle esigenze squadre di persone regolarmente pagate, risparmiando ai datori di lavoro la fatica di reclutare, anche per un solo giorno di lavoro, la manodopera di cui hanno bisogno.

Chi recluterete?

Nel settore agricolo non si richiedono particolari competenze. Tutti possono lavorare: over 50, pensionati, studenti, persone svantaggiate…. Ai giovani, in particolare, il lavoro nei campi permette di apprendere tante cose, a partire dalla capacità di lavorare in gruppo, secondo  il concetto di “team working” che in campagna è sempre esistito. A Cerignola ci sono 4 scuole superiori: cominceremmo da lì, perché già adesso il lavoro stagionale viene in gran parte svolto da questi ragazzi. sfondo

Quali saranno le modalità di pagamento?

I voucher, introdotti in Italia alcuni anni fa, permettono di regolarizzare e regolamentare il lavoro occasionale. Si tratta di buoni del valore nominale di 10 euro: al lavoratore entrano in tasca 7,50 euro netti, che è il minimo che si richiede per un’ora di prestazione.

Adesso, invece, quanto viene pagata la manodopera reclutata occasionalmente?

E’ di pochi giorni fa la notizia di 54 rumeni pagati 1 euro all’ora, 10 euro a giornata. E’ un fenomeno diffuso, perché i prodotti agricoli vengono acquistati a prezzi molto bassi e i datori di lavoro vogliono spendere il meno possibile, preferendo gli stranieri. Qui ci sono soprattutto rumeni e bulgari, vivono in masserie abbandonate o nei centri storici, dove gli affitti sono bassi perché le case sono in rovina.

Incontrerete non poche resistenze…

 

Nico Campese a Bilbao il 5 marzo scorso

Nico Campese a Bilbao il 5 marzo scorso

Bisogna cambiare mentalità, qualcuno deve pur provare a invertire la rotta. Solo così potremo mettere in moto la legalità e abbassare la disoccupazione. La nostra proposta va in questa direzione, e se l’Unione europea crede nel nostro progetto significa che qualcosa di buono c’è. Vogliamo avviare questo  processo di cambiamento, con un piccolo passo dietro l’altro. All’inizio non riusciremo a convincere tante persone, ma “Alla giornata” è anche una filosofia di vita: gli obiettivi si raggiungono giorno dopo giorno, con umiltà e passione. Per arrivare a grandi risultati bisogna partire dal basso, fare le cose in progressione, sporcarsi le mani.

Il vostro progetto consiste dunque in una piattaforma web che punta a fare matching tra l’offerta degli imprenditori agricoli e la domanda di chi vuole lavorare. Come attirerete queste persone?

Per i lavoratori occasionali non ci sono problemi, inseriamo dati anagrafici, localizzazione e precedenti esperienze nel settore agricolo. Prevediamo difficoltà, invece, per quanto riguarda gli imprenditori: qui da noi sono pochi quelli che utilizzano Internet, a meno che non siano giovani. Eppure, superata questa difficoltà iniziale, grazie a questa piattaforma – di cui stiamo realizzando la versione alfa – i datori risparmierebbero non poco tempo.

Già, qual è allora la vostra strategia di avvicinamento? 

Contattiamo gli imprenditori direttamente, incontrandoli, ricercando anche la collaborazione delle organizzazioni del mondo agricolo. E li convinceremo ad usare la piattaforma grazie a una rete di agenti, facilitatori che verranno pagati in base al numero dei match conclusi, in cui i datori siano stati convinti al lavoro legale. Questi facilitatori saranno persone di fiducia con esperienza nella vendita e una buona conoscenza del mondo agricolo locale. Ad ognuno verrà affidata una zona.

Perché il vostro obiettivo è varcare i confini di Cerignola…

Non solo di Cerignola, ma della Puglia, dell’Italia, dell’Europa. Nel giro di 4 anni puntiamo ad uscire dai confini nazionali. Per adesso ci stiamo concentrando sulla piattaforma, che sarà operativa tra un paio di mesi. E poi dipende dai fondi: abbiamo stimato che avremo bisogno di almeno 150 mila euro, utilizzeremo fondi personali e, speriamo, fondi pubblici o privati. Potrebbero aiutarci i due enti regionali e l’azienda privata con cui attualmente siamo in rete.

“Fork in progress”, a Foggia la solidarietà tra generazioni si sperimenta in cucina

Dopo aver intervistato Monica Paolizzi ed Elena Bologna di SocialFare sull’idea “Jobs’R’Us”, tra i 30 semifinalisti dell’European Social Innovation Competition, proponiamo un viaggio tra gli altri otto progetti italiani che hanno passato la prima selezione. Esempi di come il nostro Paese si sta muovendo sul fronte dell’innovazione sociale per generare lavoro.

Cominciamo con “Fork in progress – cook & social business” (semifinalist 8), nato dallo spirito imprenditoriale di due giovani sorelle pugliesi, Luana e Tania Stramaglia.

Tania e Luana Stramaglia

Quando avete costituito la vostra impresa?

L’abbiamo costituita nel giugno 2013, dopo aver vinto il bando “Principi attivi” con cui la Regione Puglia da alcuni anni realizza un programma per lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile. Con “Fork in progress” nel 2012 siamo stati tra i 173 progetti (su un totale di oltre mille presentati) che hanno vinto ciascuno un premio di 25 mila euro. E “Fork in progress” è il nome che successivamente abbiamo dato all’impresa.

Voi volete aprire a Foggia un ristorante particolare: da quale ispirazione nasce l’idea?

Nostro nonno lavorava in campagna ma poi, a causa di un incidente, ha perso una gamba e la sua vita è cambiata. Non si è abbattuto, anzi, ha cominciato a dedicare il suo tempo alla preparazione di piatti culinari utilizzando i prodotti della sua terra, coltivata dai nostri cugini. Da 4 anni è diventato il cuoco di casa: fa di tutto, dalla pasta fatta in casa al panettone.

All’età di 77 anni, il nonno ha saputo reinventarsi. E noi nipoti abbiamo cominciato a riflettere su come la cucina sia uno strumento per comunicare affetto. Qui al Sud, soprattutto, se vai a trovare un anziano ti offre sempre qualcosa e se la rifiuti si offende, perché è il suo modo per dirti: “ti voglio bene”. Ecco perché nel 2012 – Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà intergenerazionale –  abbiamo avuto l’idea di aprire un ristorante nella cui cucina anziani e giovani lavorassero insieme.

Quali anziani, quali giovani?

Gli anziani autosufficienti accolti dalla Fondazione Barone di Foggia e i ragazzi del quarto anno del locale Istituto alberghiero: per questi ultimi l’esperienza sarà un tirocinio a tutti gli effetti, previsto dal loro percorso di studi. Assumeremo un cuoco che ogni sera verrà affiancato da una coppia composta da un giovane e da un anziano, per un totale di 6 coppie che si alterneranno. Ad aprile formeremo le squadre e, dal momento che “Fork in progress” è accreditata con la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Foggia, faremo partire alcuni laboratori propedeutici curati da una tirocinante. Questi laboratori, tra cui quello di narrazione autobiografica, avranno lo scopo di aiutare e incoraggiare i partecipanti a conoscersi e a “pensarsi” in modo diverso, progettando il proprio futuro.

Qual è il “piatto” forte di questo progetto?

Quando lo abbiamo scritto abbiamo pensato non soltanto agli anziani, ma anche ai giovani “neet” (not in education, employment or training, ndr). Per quanto appartengano a categorie diametralmente opposte, sia gli uni che gli altri sono a rischio di marginalizzazione perché l’attuale società produttiva tende ad escluderli, non tenendo conto del loro pensiero e della loro espressione.

Il nostro non è un progetto di assistenza: intendiamo coinvolgerli facendo impresa, per produrre valore economico e sociale.

In quale contesto ambientale e sociale aprirete il ristorante?

scorcio del centro di Foggia

scorcio del centro di Foggia

Apriremo nel centro di Foggia, che negli ultimi anni è stato abbandonato dagli esercizi commerciali. Non ci sono neanche più locali. Noi vogliamo contribuire a rivalutare questa parte così bella della città. Sappiamo che non sarà facile, ma vogliamo provarci.

Per quanto riguarda il contesto sociale, secondo dati Cgil la provincia di Foggia dal 2007 al 2012 ha visto scendere il tasso di occupazione dal 43,2 al 40,9. Il Foggiano si distingue in negativo anche per il più basso tasso di occupazione giovanile (15-29 anni) che si attesta sul 19,8%, oltre 6 punti sotto la media regionale. I “neet” sono oltre 46 mila. Nelle classifiche annuali del Sole 24Ore sulla qualità della vita in Italia, noi risultiamo sempre agli ultimi posti.

A quando l’inaugurazione?

Sicuramente a settembre, forse già a maggio. I locali sono quasi pronti. Fortunatamente qui i prezzi degli affitti e delle materie prime sono bassi.

La vostra è un’impresa a finalità sociale. Come intendete investire parte degli utili?

Intendiamo realizzare altri progetti di innovazione sociale, coinvolgendo la cittadinanza: il cliente che verrà al ristorante non solo saprà che parte di quanto spende servirà a finanziare altri progetti, ma esso stesso avrà un ruolo decisionale nella scelta delle azioni.

Cosa avete in mente?

La prima idea che ci è venuta è di realizzare un servizio di catering multietnico parallelo alla ristorazione. Foggia è terra di braccianti migranti: vivono in campagna in posti chiamati ghetti. Noi vogliamo portarli in città.

Quali sono le partnership di “Fork in progress”?

Quando abbiamo presentato il progetto alla Regione avevamo due partnership: Fondazione Barone e Istituto Alberghiero. Dopo, pian piano, abbiamo lavorato molto sul territorio e oggi fanno parte della nostra rete anche le Facoltà di Agraria e di Scienze della Formazione dell’Università di Foggia. Contiamo anche sulla collaborazione di un cuoco stellato che collabora con Eataly di Bari e ci darà consigli sulla ristorazione. Ovviamente non è lo stesso cuoco che assumeremo, non potremmo permettercelo.

Prossimo passo?

Faremo un video promozionale per comunicare il progetto: lo metteremo sui social network, anche per attirare nuovi partner e sponsor.

Torino Social Innovation per le imprese giovani

Presentato ufficialmente nel dicembre scorso, Torino Social Innovation  è l’insieme di strategie e strumenti che il Comune di Torino mette a disposizione dei giovani per sostenere la nascita di imprese sociali trasformando idee innovative in servizi e prodotti.

facilito1Da gennaio 2014 a dicembre 2015 è attivo un programma – FaciliTo Giovani e Innovazione Sociale – che offre supporto informativo, accompagnamento alla costituzione e sviluppo dell’impresa, sostegno finanziario e un set di servizi supplementari offerti dai partner pubblici e privati che rappresentano l’ecosistema dell’innovazione sociale a Torino. La capacità di stare sul mercato e di rispondere alle sfide sociali emergenti richiedono competenze che il nuovo sportello è in grado di supportare.

Il  percorso di accompagnamento è rivolto a giovani di  età compresa tra 18 e 40 anni, aspiranti imprenditori, lavoratori autonomi, imprenditori individuali; possono accedervi anche imprese già attive, composte prevalentemente da giovani, interessate ad aprire o potenziare una sede operativa a Torino. Per accedere al programma, l’impresa dovrà svolgere in modo continuativo la propria attività, almeno per tre anni dalla data in cui si è concluso il progetto di investimento (vedi avviso pubblico per l’accesso al progetto).

Il programma mette in gioco 2 milioni di euro, di cui 650mila euro di sostegni diretti alle imprese, 200mila euro in servizi di accompagnamento e un milione di euro in fondo di garanzia.

Lo sportello è aperto su appuntamento: dall’8 gennaio è attivo il numero verde 800.300.194 (dal lunedì al giovedì 8.30-16.00, venerdì 8.30-12.30); e-mail: torinosocialinnovation[at]comune.torino.it